di Terry Passanisi

Una riproduzione digitale VR dell’appartamento di Deckard.
Cinquant’anni fa, lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick utilizzò per la prima volta una parola per tutti quegli oggetti inutili che si accumulano in una casa: kipple. In “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, che servì come palinsesto per il film “Blade Runner”, teorizzò che “l’intero universo si sta muovendo verso uno stato di totale, assoluta kippleizzazione”. Il kipple, materia residuale di oggetti o addirittura vite che un tempo ebbero un uso (tradotto in italiano, quando si è provato timidamente a tradurlo, con un impotente palta), si riproduceva, scriveva Dick, quando nessuno era nei paraggi.
Come mi ha fatto opportunamente notare l’amico Giovanni De Matteo (di certo un appassionato di sci–fi come si deve e non della domenica come me), il termine non fu coniato da Dick stesso. Lo scrittore lo prese a prestito, dandogli i connotati definitivi nel suo romanzo più celebre e facendogli fare anche un’apparizione fugace in “Labirinto di Morte” (1970) – fissandolo così nel linguaggio degli appassionati di tutto il mondo –, da una fanzine degli anni ‘60 curata da Ted Pauls, intitolata per l’appunto “Kipple” e pubblicata per ben diciotto lunghi anni, fino al 1967. Dick fu un vor Leggi tutto…