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“Il trono di spade” e il problema con le profezie

Profezie e magia sono affari viscidi in Game of Thrones. Si tratta di miti, e tutte le storie di miti possono essere vere in un senso o in un altro – ciò che ci dicono sul nostro futuro non dipende da ciò che indicano letteralmente quanto dal significato che la nostra interpretazione attribuisce loro.

di Terry Passanisi.

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Molto è stato fatto, fin dal principio del “Trono di Spade” (“Game of Thrones” o GoT), sugli elementi posti in conflitto per la degna conclusione che si profilava: il maligno, la gelida crudeltà che striscia silenziosamente nelle lande di ghiaccio oltre la Barriera, e il fuoco che si innesca alto ovunque si guardi. Spettri dagli occhi azzurri che si risvegliano nei corpi di uomini morti tra le foreste del Nord; draghi in carne e ossa che nascono da uova di pietra nel cuore di una pira funebre, e le candele di vetro della perduta Valyria che avvampa di magia per la prima volta dopo cento anni.

Per Melisandre, sacerdotessa del culto di R’hllor, vecchia di quattro secoli, tutto questo non era altro che la conferma che l’apocalittica battaglia predetta dalla sua fede era in procinto d’avverarsi; una guerra per l’alba combattuta tra le dualistiche forze del bene e del male: il Signore della Luce e il Grande Altro della notte senza fine. Come tanti integralisti, la sacerdotessa è riuscita a scorgere la minaccia di un cataclisma unicamente attraverso il punto di vista delle scritture, e ha perseverato nel fatto che uno dei capitoli o dei versetti stava per realizzarsi, puntando ciecamente tutto sulle prove della profezia, cioè unendo i puntini in pratica, con i paraocchi del teorico del complotto o di mia nonna sulla Settimana Enigmistica.

Ma profezie e magia sono affari viscidi in GoT, sia concreti che fallibili, sia veri che apocrifi. In questo senso si tratta di miti, e tutte le storie di miti possono essere vere in un senso o in un altro – ciò che ci dicono sul nostro futuro non dipende da ciò che indicano letteralmente quanto dal significato che la nostra interpretazione attribuisce loro. Certo, Melisandre poteva effettivamente riportare in vita persone morte e partorire ombre assassine, ma le visioni che ha scorto tra le fiamme non erano ineluttabili. Come sentenziò una volta Tyrion nei romanzi: “Le profezie sono come un mulo addestrato a metà, sembra che possa tornarti utile, ma quando inizi a fidarti, ti prende a calci in testa.”

Dopotutto Stannis non era Azor Ahai, e la serie è proseguita incurante del fatto che uccidere il Re della Notte con una pugnalata avrebbe reso Arya Stark o la Principessa che venne promessa o soltanto una ragazza tosta con un super pugnale nella mano giusta. Certo, è possibile riavvolgere il nastro della leggenda e filtrare i legami diretti tra Arya e i versi che parlano di fumo, sale e stelle che sanguinano – di certo, assumere che l’acciaio di Valyria sia forgiato dal fuoco di un drago, come scritto in alcune cronache; è in quel senso che Arya brandisce una lama di fuoco. Ma se possiamo chiudere un occhio (e l’altro a metà) per far sì che tutte le tessere combacino, significa davvero che le profezie si sono avverate o, invece, siamo stati noi a riannodare i fili con arbitraria sapienza, così da decodificare gli elementi della storia che volevamo ci fosse raccontata? E importa davvero se Azor Ahai sia Jon o Arya oppure se non sia tutto solo nella nostra testa? Il Re della Notte è morto in ogni caso, a prescindere, la fede nel Dio Rosso non risulta, né di più né di meno, essersi affermata come verità ultima. Questa è l’essenza dei miti: sono storie che raccontiamo sia di noi stessi che del mondo in cui viviamo, attraverso allegorie da interpretare; e tornano utili solo nella misura in cui ci portano dove abbiamo bisogno di andare, sempre che ci servano per andare in un punto agognato o prestabilito (viceversa perdono la loro funzione).

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Avrei dato una mano (l’altra di Jamie) affinché Arya avesse nella serie più spazi e risvolti possibile; di come si è presa la scena di questo episodio, no, non sono soddisfatto. Il calo di qualità della sceneggiatura, rispetto al materiale ottenuto dai romanzi, è evidente. A prescindere che la dinamica sia piaciuta o meno ai fan di lunga data, l’uccisione del Re della Notte da parte di Arya è per GoT un ritorno a una forma pura di sottotesto. La serie ha fatto le sue ossa tessendo la promessa di raccontarci un certo tipo di storia, una di quelle saghe di genere fantasy che di solito narrano le gesta di eroi predestinati, di inevitabili profezie e di vittorie già scritte nei glifi. Invece, GoT ci ha presentato una narrazione più disordinata e complessa, che abbiamo amato con tutta l’anima perché non è mai stata percepita scontata o prevedibile. Dare per scontato che sia Jon Snow (sì, vabbè…) l’eroe della battaglia e mettere poi nelle mani di Arya il colpo definitivo è la cifra che ha reso da tempo il Trono di Spade lo spettacolo che ha sedotto il mondo del cinema (l’asticella è troppo alta, vogliamo chiamarla davvero solo serie tivvù?), obbligandoci a riconsiderare non solo la figura dell’eroe in una storia di qualunque genere, ma il concetto stesso di predestinazione e inevitabilità dell’eroe. Il nuovo approccio non è del tutto inedito, ma è piuttosto originale e ci strattona per il bavero, ci sussurra dolcemente all’orecchio quanto ci vuole bene, per poi prenderci a calci e fuggire lontano: il linguaggio più efficace in amore.

Un giorno gli abitanti di Westeros faranno girare nuove leggende e intoneranno canzoni sulla battaglia della Lunga Notte, e immagino che – oltre a una chissà quanto lugubre ballata Jorah si sarà meritato per essersi sacrificato in difesa della sua regina – Lyanna Mormont si guadagnerà senza dubbio la versione medievale di una canzone epic metal per aver annientato quel dannato gigante di ghiaccio un attimo prima di essere stritolata a morte, come solo una vera donna-eroe del Nord, se mai ce ne fosse stata una più valorosa (ma forse sono troppo di parte per un personaggio che non smetterò mai di adorare, nonostante un breve, evitabile risvolto finale… ma la presenza scenica della giovanissima attrice Bella Ramsey non ha confronti). Arya avrebbe dovuto rappresentare la purezza incorruttibile della giovinezza fino alla fine ma, ora che ha conosciuto la carne, più essere umano e meno simbolo, ha ceduto lo scettro alla compianta Lyanna Mormont.

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Non tutti però hanno ottenuto una morte nobile e appropriata, né tutti avranno le loro storie raccontate con fedeltà, sempre che non finiscano dimenticati del tutto. “Valar morghulis, Valar dohaeris”, siamo tutti d’accordo. Tutti gli uomini devono morire, tutti gli uomini devono servire. Ma con i poveri Dothraki si è esagerato. Il popolo nomade si è unito alla causa di Dany (lo so, i diminutivi che trasformano i nomi fantasy in quelli di una cugina milanese sono insopportabili, ma in questo caso semplificano la vita), arrivando perfino a ignorare i suoi tabù più rigidi – apparentemente preveggente! – come quello di attraversare l’acqua avvelenata del nero mare salato, per essere mandato, già nella prima ondata d’attacco, alla carica neanche fosse carne-da-macello-per-zombi ed essere spazzato via in pochi secondi. Per essere chiari, assistiamo a un’intera cultura interamente sterminata, un genocidio senza troppi onori né fanfare di contorno. D’accordo; questo fa sì che le orde di non-morti in procinto di sbucare dal buio si percepiscano ancora più spettrali, ma il sacrificio dei Dothraki non risulta né particolarmente drammatico né significativo, se confrontato con la morte dei personaggi citati finora. Forse proprio perché nessuno di loro è un eroe individuale, un personaggio abbastanza importante da possedere un nome proprio, risulta più facile vederlo soccombere senza sonate di pianoforte tristi in sottofondo. La cosa migliore di tutta la Lunga Notte, decretata all’unanimità, rimane la colonna sonora di Rami Djawadi.

Pensate all’Armageddon promesso dal Re della Notte, l’uccisione delle uccisioni rappresentata dalla morte della storia e della memoria umana. Egli immaginava la fine del mondo come una cancellazione di storie e di miti, il tacere delle voci che avrebbero perpetuato il passato di un popolo ai propri posteri. Per quanto riguarda i Dothraki, il Re della Notte ha raggiunto il suo scopo; le loro storie non potranno più essere raccontate, e così quelle storie scompariranno per sempre. Magari s’infileranno nei miti di altre culture come spauracchi o, nel migliore dei casi, come “antichi selvaggi” senza alcuna dimensione umana, ricordati dalle generazioni future solo dal loro punto di vista e non da quello degli stessi Dothraki. Magari la Madre dei Draghi si assumerà l’onere di creare una sorta di conservazione culturale, sempre se sarà lei a sedere sul Trono di Spade; ma la perdita è irrevocabile, misurata non solo dal numero di Dothraki uccisi sul campo di battaglia, ma anche da tutte le generazioni precedenti che saranno dimenticate: i loro nomi, le loro vittorie, tutti i loro morti rimarranno in silenzio sulle bocche dei vivi come se non fossero mai esistiti.

Bran, almeno lui, ricorderà – Valyria, i Dothraki, e anche questa storia, il giorno in cui tutto ciò che si distingue di questo mondo sarà stato spazzato via. C’è qualcosa di stranamente confortante in questo, un debole senso di salvezza che emerge dall’idea che nessuno venga mai completamente dimenticato o perduto, che qualche pezzo di memoria di ogni essere umano continui a vivere in una specie di reminiscenza che sopravvive al mondo. Forse è questo quello che le storie devono essere, quando provvedono a noi al meglio – non le profezie ma i retaggi, non le promesse di ciò che verrà, ma le promesse di ciò che è stato prima; non il destino, ma la consapevolezza che la gloria si nasconde spesso dietro le sfide sul nostro cammino. Dopo la tremenda caduta dalla torre e prima della sua trasformazione nel Corvo con Tre Occhi, il piccolo Bran aveva chiesto alla Vecchia Nan di raccontargli una storia spaventosa. E così l’anziana gli aveva raccontato quelle della Lunga Notte e della Guerra dell’Alba, quando gli Estranei uscirono dal profondo Nord per distruggere tutti gli esseri viventi e immergere il mondo in un inverno senza fine.

“Odio le tue storie,” Bran aveva bloccato la Vecchia Nan. “Conosco una storia di un ragazzo che odiava le storie,” gli aveva risposto Nan. E Bran che l’avrebbe ascoltata comunque, un giorno avrebbe conosciuto tutte le sue storie; e tutte sarebbero state veritiere.

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3 commenti

  1. Complimenti, ottima analisi.
    Relativamente ai Dothraki vorrei ricordare che non era tutto il popolo e tutti i Kal.
    Altri saranno rimasti a Meeren o sul continente del sud.
    Condivido tutto.

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