Racconti

Un treno chiamato Zeta

«Tutti su, muoversi o arriviamo in ritardo!», aveva detto il soldato, nel suo dialetto. Tutti l’ascoltavano.

di Terry Passanisi

Il male si ferma in ritardo. Il prete lo ripeteva a mitraglia, ma nessuno l’ascoltava. E a suon di sentirlo, il significato diventava anidride carbonica. Immaginavo intendesse che la storia è un pappagallo che si spenna da solo e, poi, aspetta che le piume gli ricrescano per ricominciare da capo.

Un gancio di luna poco prima di mezzogiorno iniziava a ritrarsi. Piazza Verdi era un plotone di soldati che ci assillava, impartendo istruzioni. Il teatro, sbarrato da strisce di nylon, portava imbratti di spray rosso; scritte oscene, simboli che avremmo dovuto seppellire sotto oceani di calcestruzzo un secolo prima. I militari ci sbraitavano addosso e ci costringevano con il calcio del fucile; neanche servisse: bastavano le facce spietate per metterci a semicerchio, per poi farci finire distesi faccia a terra; non mi restava che immaginare, col sudore della fronte che inacidiva le labbra. Mi avevano assestato un colpo tra le scapole, e m’ero accasciato del tutto. Non provavo dolore, non lo sentivo da anni, ma soffrivo lo stesso per l’anziana col fazzoletto al collo, che piangeva anche quando nessuno le faceva violenza. Ce l’avevo presente da tempo, pur non conoscendola: piangeva quando faceva la fila alla posta, in tempo di pace, figuriamoci; doveva essere un difetto congenito. La ragazza accanto aveva perso il cappellino per la sventola col ferro; ecco, questo poteva farmi male: una ciocca di riccioli sconquassata. Avrei voluto ricomporgliela, allungando una mano, verificare se la porcellana del viso fosse artefatta dal trucco, farle intendere quanto mi piacesse così nuova e potente, vestita benissimo, ma un ginocchio tra le vertebre mi aveva di nuovo infilzato a terra. Polvere tra le gengive; percepivo sulla nuca l’incandescenza dei binari, come un’onda d’urto. Lo stridio del treno in arrivo urlava più forte del re degli spettri. Ci avevano messo neanche tre giorni a deviare le rotaie da quelle parti; come le carrozze passeggeri quando sfilavano lungo le rive, o i carri che portavano i cavalli al macello quand’ero bambino, dove ora lo stadio era stato convertito a comando militare. Stazione Piazza Verdi. Non una vera e propria stazione, senza neanche una pensilina. Luogo di ritrovo, d’adunata, di rastrellamento. Da lì si partiva per le destinazioni del Progetto: Faedis, Cattolica, Amalfi, Schwerin, Bad Mergentheim, Timișoara. Le avevano scelte meglio, stavolta. Morire in posti così ameni era più dolce, più accettabile che edulcorato da droghe e gas; pensate meglio affinché non rimanessero, stavolta, memorie e prove, affinché qualunque traccia si dissipasse come cenere in un alito di vento, nel caso.

«Tutti su, muoversi o arriviamo in ritardo!», diceva il soldato, nel suo dialetto. Tutti l’ascoltavano.

Puzzo di legno marcio, che i fumi dell’impregnante fresco sulle tavole del vagone non bastavano a coprire. Ero stato gettato di peso in un angolo, nella stessa posizione, con l’aggiunta delle mani legate dietro la schiena. Intravedevo, per quanto potessi ruotare il collo, le casse merci con il fianco marchiato a fuoco: destinazione Schwerin, Progetto Zeta. Dopo qualche chilometro, mi era parso che il soldato rimasto a sorvegliarci si stesse appisolando. Impensabile tentare qualcosa, provare a slegarmi e architettare una fuga. L’anziana continuava a piangere, il prete pregava (o imprecava) in silenzio, la ragazza era paralizzata dalla paura, sapendo quello che l’aspettava una volta giunti a destinazione; poi due bambini e un uomo dall’aspetto dimesso sulla sessantina. Completava la lista cavie l’unico che avrebbe potuto darmi una mano, grande e grosso, la barba sfatta; ma era mezzo demente e, con bava e sangue che gli colavano dalla bocca, sembrava la vittima di una grossa sbornia.

Avevo cercato di tirarmi su, solo per respirare meglio; che sarà mai, pronunciavo con gli occhi. Non avevo che l’intenzione di stare più comodo, rassegnato ormai al mio destino, all’invertibilità delle ore contate, al mondo che declinava una volta per tutte per come l’avevamo conosciuto. Il soldato m’aveva scorto; pertanto avevo provato con piglio tranquillo, proprio per fargli capire la mia rassegnazione, che non avevo nessuna intenzione ribelle. Un alieno avrebbe colto al volo. Tre passi di rincorsa e il suo stivale lucidissimo aveva ruotato in aria come nella rovesciata del logo della Mythic League; se avessi avuto il tempo di rendermene conto, avrei capito che la mandibola si era spezzata in due punti diversi ed era uscita dalla sede. Più fortunato, se così si può dire, il soldato mi aveva anticipato i sentimenti, aveva estratto la pistola, tirato il carrello, e in un attimo sparato un colpo alla tempia. Nessuna presa di coscienza tra il calcio e il proiettile che mi attraversava le meningi: non avrei mai saputo quanto male facesse una mandibola rotta da un calcione, se l’anziana avesse smesso di piangere per lo shock, se la splendida ragazza mi avrebbe portato per sempre nel cuore.

Il sole a picco sopra un sentiero di campagna, voci lontane, grilli in amore, odore di disinfettante: ero vivo? Mi avevano salvato? Mi ero risvegliato. Con la schiena appoggiata alla parete fredda di una baracca, sbirciavo attraverso le sbarre, oltre quel sentiero, oltre altre sbarre di un’altra baracca di fronte adibita a prigione. La ragazza mi fissava con occhi glauchi, i capelli rasati a zero, la bocca cucita a doppio filo, un braccio strappato via, il pigiama a righe del campo insozzato di non so quali fluidi. Il progresso, gli esperimenti, il progetto dei progetti su chi non prova più dolore. Non era più soltanto volontario, poiché il Progetto Zeta non portava risultati da anni. Lei cantilenava nella gola, gli occhi enfi di morte provavano a sussurrarmi, tentava di dirmi a bocca cucita: il male si ferma in ritardo, il male si ferma in ritardo. Qualcuno a cui non avevano strappato le orecchie, prima o poi, l’avrebbe sentito.


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