di Jenny Barbieri
Vi siete mai fermati un attimo a pensare al modo in cui spesso ci avviciniamo alle opere di artiste e letterate? Se lo facessimo, ci accorgeremmo di avere un atteggiamento consciamente o, molto più spesso, inconsciamente diverso rispetto a quello che riserviamo ai loro colleghi uomini. Inoltre, questa affermazione risulterebbe vera tanto per un pubblico maschile quanto per uno femminile. Già il solo fatto che ci siano ancora in uso le definizioni di arte e letteratura femminile racchiude e isola i lavori di molte donne geniali in una zona a se stante della storia della cultura. Attraverso l’uso di tali definizioni, il pubblico maschile è solito riferirsi a opere create da donne per le donne; insomma, a dei lavori che per stile e temi non sono certo in grado di risvegliare il loro interesse. D’altro canto, non è meno dannoso l’approccio di buona parte del pubblico femminile, che attribuisce a queste definizioni un valore quasi simbolico: le opere vengono, così, rilette e reinterpretate alla luce di un moderno femminismo, che altro non è se non un falso storico, certamente deleterio al fine della comprensione profonda delle opere stesse.
Per fare un esempio concreto, questo è quanto sta accadendo con la riscoperta di Artemisia Gentileschi. Una pittrice superba, un’artista in grado di padroneggiare le tecniche del colore in maniera egregia, un talento spiccato a tal punto da permetterle di affermarsi grazie alla sua arte in una professione in toto maschile. Artemisia è stata di certo coraggiosa: ha scelto di intraprendere una strada non facile dedicandosi alla pittura e ha perseverato nella sua decisione sfidando molte convenzioni dell’epoca, ad esempio rappresentando su tela scene tratte dai libri sacri. Siamo nel Quattrocento. Non ci stupirà scoprire che, a quel tempo, era inusuale per una donna affrontare temi sacri: la frivolezza femminile (o, meglio, la mancanza di un’istruzione adeguata, puro appannaggio maschile) permetteva di comprendere solo gli aspetti pratici della vita, come la gestione domestica, o quelli legati a un aspetto più “romantico”, come le bellezze della natura o l’amore. La giovane Gentileschi, invece, osa scardinare questa visione affrontando sin da subito temi biblici e, nel farlo, adotta uno sguardo quanto mai realistico e umano, infondendo nei suoi personaggi, soprattutto in quelli femminili, tutta la sofferenza che lei stessa, in prima persona, ha provato. A soli diciassette anni, Artemisia viene violentata da quello che doveva essere il suo mentore, la sua guida artistica. Poco tempo dopo, eccola coinvolta, pedina nelle mani del padre, in un processo per stupro senza precedenti. Lei stessa testimonia in tribunale e, nonostante sia vittima, si trova a dover sopportare le pene fisiche imposte dalle torture e quelle morali della pubblica derisione.
Donna di carattere e artista innovativa: da qui, a metà del secolo scorso ha preso vita un culto della figura di Artemisia in chiave femminista. Tutta la sua produzione è stata riletta e reinterpretata alla luce di quello stupro. Il mito è cresciuto a tal punto che l’artista è diventata icona prima ancora che figura storica: negli anni Settanta a Berlino le viene persino intitolato un albergo riservato esclusivamente a una clientela femminile. Se è vero che Artemisia, come molti altri artisti, ha infuso su tela le sue esperienze di vita, la sua sofferenza, è vero anche che si commette un errore grossolano nell’interpretare tutte le sue opere alla luce di un femminismo e di un’affermazione del ruolo della donna totalmente estranei all’epoca in cui è vissuta.
Come Artemisia, molte altre artiste vengono oggi ricordate più per le vicende della loro vita che per l’importanza e la bellezza della loro produzione. Un nome su tutte: Camille Claudel. Scultrice estremamente talentuosa, una delle prime donne in assoluto a scegliere di misurarsi con quella che, forse, è a tutti gli effetti l’arte maschile per eccellenza, Camille ha saputo realizzare opere estremamente curate e raffinate, in cui ci si spinge ai limiti estremi dell’equilibrio. Per citarne una, Il valzer è una scultura caratterizzata da un’intensità emotiva potentissima: due figure, un uomo e una donna, si abbracciano in un ballo sensuale e, al contempo, romantico. Il corpo di lui eretto, forte, quasi ripiegato su quello di lei ci trasmette una tenera idea di protezione. C’è movimento, c’è proporzione, c’è sentimento, c’è un equilibrio precario difficile da raggiungere nell’arte scultorea. Eppure, Camille, spesso, non viene ricordata per questo o altri suoi lavori, parimenti interessanti, bensì per le sue tormentate vicende personali. Allieva prima e poi amante di Rodin, confinata per anni nel ruolo “dell’altra donna”, incastrata in una storia d’amore che, si dice, l’abbia condotta alla follia: ecco i motivi per i quali il suo nome è giunto sino a noi. E oggi mi chiedo: chissà se Camille sarebbe contenta di questo o se preferirebbe che, a raccontarci la sua storia, fosse quanto ha racchiuso nelle sue fantastiche sculture. Ma perché accade tutto ciò? Perché, nella storia della cultura, le donne sono spesso oscurate, dimenticate, misconosciute, travisate?
A mio parere, una buona parte di responsabilità ricade sulla critica: ripercorrendone, infatti, la storia è possibile accorgersi di come artiste e letterate siano giudicate in modo completamente diverso dai loro colleghi uomini. Le donne che vogliono emergere nel mondo dell’arte sono state per secoli giudicate poco virtuose: Rousseau, ad esempio, definiva le intellettuali come donne che volevano farsi uomini. Una ragazza, una madre, qualsiasi mente vivace femminile che provava a misurarsi con arte o letteratura partiva svantaggiata: a regnare era il paradosso secondo il quale una donna virtuosa non può saperne abbastanza della vita per scrivere o dipingere bene e una donna che ne sappia abbastanza della vita per esprimersi bene in un’arte non può essere virtuosa. Di certo, questo ci aiuta a comprendere il fiorire del fenomeno degli pseudonimi maschili in alcune epoche storiche: celare la propria identità dietro a un fittizio nome maschile permetteva di essere pubblicati, di crearsi un proprio pubblico, di essere giudicate senza discriminazione alcuna, con imparzialità. Molte delle autrici giunte sino a noi hanno, almeno inizialmente, adottato questo escamotage: tra le altre Emily Brontë, che diede alle stampe il suo capolavoro, Cime tempestose, sotto falso nome. Quando apparve per la prima volta, nel 1847, il romanzo fu accolto con favore e interesse: era l’opera d’esordio di uno scrittore promettente, dal grande futuro, un romanzo potente e originale (Carol Ohmann). Tre anni dopo, il romanzo vide una seconda edizione, questa volta edita con il vero nome dell’autrice. Nonostante non fosse stato cambiato nulla, nemmeno una virgola, ecco che quello che era stato definito uno stile brutalmente realistico diventava un mostro incoerente; ecco che improvvisamente era più interessante parlare della vita della scrittrice che della sua opera; ecco che la critica letteraria si spingeva sino a diventare un attacco personale, con giudizi che associavano la giovane autrice a un uccellino che sbatte le ali contro le sbarre della sua gabbietta (Sidney Thompson Dobell).
Se un amore intenso e brutale come quello narrato in Cime tempestose non si confà a un’autrice donna, un amore più delicato narrato da una penna femminile diventa subito qualcosa di scontato e noioso: è quanto è accaduto nella storia della critica dei romanzi di un’altra grande scrittrice dell’Ottocento inglese, Jane Austen. Ancora oggi troppo spesso reputata ideatrice di romanzi rosa (nel senso dispregiativo del termine), scrittrice donna che si rivolge a un pubblico unicamente femminile, di lei si mettono poco in evidenza tutti quegli aspetti letterari e stilistici che hanno reso le sue opere senza tempo, romanzi meritevoli, sotto ogni aspetto, di appartenere alla storia della letteratura. Un esempio: la sagace ironia con cui Jane tratteggia i suoi personaggi, la vena satirica che si spinge sino a diventare parodia letteraria ne L’abbazia di Northanger, la critica sociale velata ma mai assente. Eppure, raramente questi lati dei suoi romanzi vengono posti in evidenza. Se è vero che l’aspetto “romantico” pervade tout court le trame delle sue opere, è altresì vero che vi sono molti altri aspetti che concorrono a crearne il lato pulsante, l’essenza della sua produzione letteraria.
Ignorate, relegate in una categoria letteraria di poco conto o, ancora, considerate delle eccezioni straordinarie, svincolate da qualsiasi tradizione esistente, e, di nuovo, raccontate più per il loro vissuto che per la loro arte. È il caso, quest’ultimo, di molte poetesse, prima tra tutte Emily Dickinson, eccentrica ragazza americana che è riuscita a trovare nella poesia un rimedio a quella bizzarra solitudine che si era autoimposta. Ennesimo esempio tratto dal panorama letterario ottocentesco. Potremmo quasi pensare che queste “discriminazioni” da parte dei critici siano figlie di un dato periodo storico, ma è davvero così? Forse che, con il cambio di secolo e l’affermarsi di una nuova mentalità più “aperta” e inclusiva, anche la critica artistica e letteraria abbia assistito a un cambio di atteggiamento? Se sembra riduttivo dare una risposta univoca e universalmente valida, non si percepisce una grande distanza tra l’immagine della bizzarra Emily Dickinson e quella di altre sue due colleghe del Novecento, Sylvia Plath e Alda Merini, entrambe poetesse, entrambe descritte come ispirate dalla loro follia, dalla loro (presunta) malattia mentale. Sembra, inoltre, ancora in vigore una distinzione di generi letterari o argomenti trattati in cui alle donne non è dato di eccellere. Per restare nell’ambito della poesia, molte scrittrici hanno dato un contributo non indifferente al movimento della Beat Generation, eppure pochissime di loro vengono oggi ricordate e, anzi, in molti casi è praticamente impossibile reperire le loro opere in traduzione. Il motivo? Probabilmente, ancora oggi, troviamo interessante e innovativo quando un uomo ci parla di droga e amore libero, ma se a trattare gli stessi temi è una donna, ad esempio Leonor Kandel, quel realismo diventa sconcertante e, a tratti, scandaloso. Per quanto riguarda il discorso inerente ai generi letterari, quante scrittrici di fantascienza hanno raggiunto la fama con le loro opere? Pochissime. Eppure, i romanzi di Leigh Brackett e Joanna Russ, per nominarne due tra tante, non hanno nulla da invidiare a quelli dei loro colleghi uomini.
Dimenticate, ignorate, giudicate per il loro stile di vita e non per le loro opere, relegate in categorie artistiche e letterarie “inferiori”, ma, nonostante questo, sempre presenti. Opere d’arte, romanzi, poesie da scoprire e riscoprire. Le voci di molte donne del passato e del presente sono qui, pronte a farsi ascoltare da tutti noi, nella quasi utopica attesa di essere inserite, a diritto, nella storia della nostra cultura.