di Luca Perri
1783
Lo scienziato inglese John Michell teorizza che un corpo possa avere una massa talmente grande da non consentire nemmeno alla luce di sfuggire alla sua attrazione gravitazionale. Un corpo del genere, si dice argutamente, sarebbe dunque invisibile da lontano: lo chiama stella oscura, facendo invidia a tutti gli sceneggiatori di fantascienza dei secoli a venire.
1798
Il francese Pierre-Simon Laplace riprende e sviluppa l’idea di Michell, che però viene poi lasciata a prendere polvere. A parte ragionarci un po’ su, infatti, c’è poco altro da fare. Non esiste nemmeno un’ipotesi su come poterla verificare! Ragionare secoli su cose inverificabili non è da fisici. Per quello c’è la filosofia!
1915
Un tale tedesco che vive in svizzera, Albert Einstein, ha da poco dimostrato che la velocità della luce nel vuoto non solo è una costante, ma anche un limite. Già che c’era ha fatto vedere al mondo quanto spazio e tempo siano legati. Ora, non contento, comincia a sviluppare una teoria secondo cui l’attrazione gravitazionale non è una forza misteriosa e invisibile capace di tirare oggetti, ma è conseguenza delle deformazioni dello spaziotempo da parte di oggetti massicci. Una deformazione capace di influenzare anche la luce. La sua teoria prevede pure che grandi masse in accelerazione possano produrre anche altre deformazioni del tessuto spaziotemporale, dette onde gravitazionali. Deformazioni che si propagano alla stessa velocità della luce. Mic drop, Albert out.
1916
Un altro fisico tedesco, Karl Schwarzschild, rispolvera il concetto delle stelle oscure, applicandoci stavolta la relatività generale di Einstein. Finisce con l’ipotizzare corpi piccoli ma estremamente densi, capaci di produrre deformazioni estreme dello spaziotempo. Alla stessa soluzione arriva, indipendentemente, l’olandese Johannes Droste. Non stupitevi, spesso i fisici hanno le stesse idee… Sarà anche questo colpa dell’assenza di fantasia. Droste parla però di un oggetto strano, inquietante ed affascinante allo stesso tempo: la singolarità, un punto in cui la curvatura dello spaziotempo tende all’infinito.
Su questo concetto si arrovellano per quasi vent’anni nomi illustri quali l’inglese Arthur Eddington ed il belga Georges Lemaître, un prete gesuita che da questa idea è proprio ossessionato. Una volta ha parlato ad Einstein di un Universo che si espande tipo fuoco di artificio a partire da una singolarità. Albert l’ha presa bene, dandogli elegantemente del folle e mandandolo a raccogliere fiori in tangenziale. Ma mentre la comunità scientifica ragiona sull’esistenza e su cosa diamine siano queste singolarità, nasce il concetto di orizzonte degli eventi: è il punto di non ritorno, la soglia superata la quale niente e nessuno può più sfuggire alla stella oscura. In pratica il mio tavolo al sushi all-you-can-eat.
1931
L’indiano Subrahmanyan Chandrasekhar calcola che al di sopra di una certa massa una stella morente debba collassare su se stessa, a formare una stella di neutroni. Il 99,9% abbondante della popolazione mondiale prende appunti su questa interessante scoperta grazie alla propria macchina da scrivere invisibile.
1939
Alcuni scienziati, fra cui lo statunitense Robert Oppenheimer su cui Nolan sta girando il prossimo film, prevedono che le stelle di neutroni oltre una certa massa collassino in stelle oscure. Calcolano anche che, nelle vicinanze dell’orizzonte degli eventi, il tempo rallenti fino a fermarsi: un viaggiatore spaziale non vedrebbe quindi delle stelle collassare completamente, ma “congelate” nel collasso. Io al sushi all-you-can-eat. Einstein però non è affatto convinto: la singolarità gli appare una pericolosa inconsistenza nella teoria della relatività generale. Calcola che, per raggiungere una simile densità di materia, le particelle dovrebbero superare la velocità della luce. Ed il pensiero di Albert è semplice: se qualcosa è in contrasto con la sua relatività, è sbagliato. Ma rimane umile.
Oppenheimer, l’americano Hartland Snyder e l’indiano Amal Raychaudhuri dimostrano però che è possibile avere tali densità senza violare i principi relativistici. Ma perché una stella collassi su se stessa, dice Einstein, serve una perfetta simmetria sferica. E la perfezione non fa certo parte del mondo naturale. Esiste solo nella sua teoria della relatività.
1955
Il modesto Albert, l’uomo che aveva reso reale il trucco matematico di Max Planck dei quanti, muore nel 1955 convinto che le stelle oscure non siano nulla più di una soluzione matematica.
1964
Il britannico Roger Penrose dimostra che il collasso può avvenire anche in condizioni di simmetria non perfetta. Il cervello di Einstein si rivolta nel barattolo sottovuoto colmo di formalina in cui era stato messo dal patologo Thomas Stoltz Harvey.
1967
Lo statunitense John Archibald Wheeler, che tra i fisici è considerato uno bravo a dare i nomi, conia il termine buco nero. Accattivante, d’impatto mediatico. Sfortunatamente, il nome è estremamente fuorviante: non c’è alcun buco nello spaziotempo. John, galvanizzato dai complimenti alla sua fantasia, si lancia a sostenere anche che i buchi neri non abbiano capelli. I capelli, per Wheeler, sono le informazioni dell’oggetto che è collassato, inaccessibili perché scomparse dietro l’orizzonte degli eventi. Il teorema della calvizie verrà dimostrato da un gruppo di fisici, tra cui i britannici Penrose e Stephen Hawking, i quali sosterranno anche che non possa esistere una singolarità nuda, non circondata dall’orizzonte degli eventi.
1971
Hawking, continuando il proprio lavoro, mostra come le singolarità siano una caratteristica non rara e occasionale. Elabora infine una teoria secondo cui i buchi neri emettono radiazione termica a causa di effetti quantici. Si diffonde l’idea che, essendo i buchi neri delle stelle morenti, possano avere caratteristiche simili alle stelle. Potrebbero quindi esserci buchi neri rotanti, sistemi di buchi neri legati per gravitazione oppure fusioni di buchi neri. Sono però tutte ipotesi: si hanno magari prove indirette, ma nessuno trova quelle definitive dell’esistenza dei buchi neri. Come si può sondare l’oscurità?
1971 bis
La comunità internazionale trova indizi sull’esistenza di oggetti con una massa migliaia, milioni o addirittura miliardi di volte quella del Sole. Non si ha idea di come si siano formati, ma se esistono devono essere collassati in buchi neri super massicci. Gli inglesi Donald Lynden-Bell e Martin Rees ipotizzano che ce ne sia uno al centro della Via Lattea, a circa 27 mila anni luce dalla Terra. Tre anni dopo viene scoperta Sagittarius A* (Sag A*, o Sgr A*), una fortissima sorgente di onde radio molto compatta, proprio al centro della nostra galassia. Grazie ai telescopi più grandi e potenti al mondo, due gruppi di ricerca capitanati dalla statunitense Andrea Ghez e dal tedesco Reinhard Genzel ne scopriranno la massa studiando l’effetto sulle stelle vicine: 4 milioni di volte la massa del Sole.
1984
Lo scozzese Ronald Drever, il tedesco naturalizzato statunitense Rainer Weiss e l’americano Kip Thorne progettano LIGO, un sistema di rivelatori di onde gravitazionali. Ci vorranno trent’anni perché una collaborazione di oltre mille persone costruisca e potenzi i rivelatori. Alla loro accensione, il 14 settembre 2015, questi rileveranno un’onda gravitazionale prodotta 1,3 miliardi di anni prima dalla fusione di due buchi neri in un buco nero rotante. L’analisi dei dati durerà cinque mesi e coinvolgerà anche le centinaia di scienziati della collaborazione italo-francese VIRGO. Porterà, in un colpo solo, alla conferma sperimentale dell’esistenza dei buchi neri, dei sistemi di due buchi neri, della fusione fra buchi neri e dei buchi neri rotanti. Ma, soprattutto, alla prova dell’esistenza delle onde gravitazionali, l’ultimo tassello del puzzle della relatività generale. E tutto grazie ad oggetti tanto antipatici ad Albert Einstein. Rimangono però da provare l’esistenza di buchi neri super massicci e dell’orizzonte degli eventi.
2017
Sincronizzandosi grazie ad orologi atomici, 8 osservatori in giro per il mondo si uniscono a formare un unico telescopio virtuale, l’Event Horizon Telescope (EHT), del diametro pari a quello terrestre. Lo scopo è produrre la prima immagine di un buco nero.
Inizialmente i ricercatori pensano di studiare Sagittarius A*, che è “vicino”. C’è però un problema: è “piccolino” (in termini astronomici, ovviamente). Immaginate di dover fare delle foto a lunghissima esposizione a una ruota panoramica: un conto è che questa sia enorme e che le cabine, per fare un giro, ci impieghino settimane, un altro è che sia una ruotina in cui le cabine fanno un giro in pochi minuti. Alla fine, dunque, gli astrocosi decidono di rivolgersi verso M87*, il buco nero super massiccio al centro della galassia ellittica supergigante Messier 87. O M87, o Virgo A, o ancora NGC 4486… non credo di dovermi ripetere sui nomi dati dai fisici.
M87* ha 6 miliardi e mezzo di volte la massa del Sole e sta a 53 milioni e mezzo di anni luce da noi. Che sono circa 500 miliardi di miliardi di chilometri. Centimetro più, chilometro meno. Quindi M87* è più lontano di un fattore mille da noi rispetto a Sag A*, ma è circa un fattore mille più grande. Risultato: nel cielo, i due buchi neri hanno la stessa dimensione apparente. La stessa che avrebbe una ciambella sulla Luna vista dalla Terra. Capite che raccoglierne un’immagine è difficile.
Con 120 ore di osservazione vengono raccolti 10 mila terabyte di dati, inviati via cargo (non c’era altro metodo) a 2 centri di ricerca per essere analizzati dai più potenti supercomputer esistenti. Nello stesso periodo, però, EHT raccoglie altri dati. Gli scienziati sanno che saranno più difficili da analizzare, ma nella scienza bisogna avere pazienza. Intanto cominciamo a prenderli, ‘sti numeretti…

2019
Due anni di lavoro di centinaia di ricercatori di 40 Paesi portano alla prima immagine del disco di accrescimento di M87*, un disco di materia – principalmente gas e polveri – che in diverse settimane ruota attorno al buco nero, in caduta verso l’orizzonte degli eventi. Un orizzonte che dista oltre 20 miliardi di chilometri dalla singolarità (il triplo dell’orbita di Plutone). Quando questa materia arriva a quella distanza, supera il punto di non ritorno. E da lì, con le mani e con i piedi, ciao ciao: non possiamo vedere più nulla. Anche la forma di quella parte nera che rimane da osservare, però, ci può dare informazioni sulla rotazione del buco nero. L’analisi dell’immagine, inoltre, conferma ancora una volta i modelli relativistici e ci fa scoprire che quel buco nero è sì super massiccio, ma è talmente grande che la sua densità alla fine è inferiore a quella dell’aria di alta montagna. Trionfo, fiumi di cedrate, sipario.
2022
È rimasto per tutti un qualcosa di sospeso. Bella, eh, l’Alpenliebe sfocata, però… EHT era nato per produrre l’immagine di Sag A*, e ancora non c’è. Si sa che ci stanno provando, ma niente di più. Eppure, oltre 300 ricercatori e ricercatrici di 80 istituti scientifici (diversi dei quali italiani) hanno lavorato a nuovi metodi per analizzare quei dati complicati, producendo milioni di immagini con diverse possibili combinazioni di parametri per i vari algoritmi e usando grandi infrastrutture di calcolo solo per produrre L’IMMAGINE. Fino a mostrarla al mondo.
E fornendoci la prova che al centro della nostra Via Lattea c’è un buco nero il cui orizzonte degli eventi ha un raggio di “soli” 17 Soli. In pratica, compreso il disco di accrescimento, starebbe tutto nell’ellisse descritto dall’orbita di Mercurio. Eppure, questo “piccolino” è quasi 5.000 volte più denso di M87*. La stessa che ho io, dopo il sushi all-you-can-eat. Qualcuno potrebbe rimanere deluso perché quest’immagine è simile all’altra. Vero, ma già questa è una notizia straordinaria: vuol dire che ci sono molte similitudini fra buchi neri di dimensioni e caratteristiche estremamente differenti.
E chissà quante altre cose potremo scoprire. Il lavoro di EHT, infatti, non si ferma: a partire dall’analisi di quei dati complicati si sta testando in ogni modo la teoria della relatività, e si sta cercando di estrarre nuove informazioni rimaste magari nascoste ad un primo sguardo. Inoltre, lo scorso marzo è stata condotta una nuova campagna di osservazione, stavolta con tre nuovi radiotelescopi in più.
La scienza è un arazzo il cui disegno si compone di fili che apparivano slegati fino ad un attimo prima. La conoscenza viene intrecciata da migliaia, milioni di persone che svolgono piccole azioni. Azioni spesso apparentemente insignificanti, ma che accendono flebili luci: una rete di stelle ad illuminare strade immerse nell’oscurità, per osservare anche l’inosservabile. Un lavoro lungo e silente che, secolo dopo secolo, ha un unico obiettivo: spostare l’asticella della conoscenza un po’ più in alto. Un’opera che dimostra come una comunità riesca ad andare oltre i singoli: persino i più grandi geni non potrebbero far nulla senza chi li ha preceduti e chi li seguirà, correggendone gli errori. Ognuno sale sulle spalle dei giganti o dei nani del passato, fornendo il proprio contributo. E alla fine, grazie a tutti gli errori, ai nani e ai giganti, tutti insieme guardiamo più lontano, oltre l’orizzonte. Anche quello degli eventi.
Non stupitevi dunque, se il tessuto della scienza, fino a ieri bagnato dal sudore di migliaia di individui che hanno speso la propria esistenza a studiare oggetti esotici, è oggi intriso di lacrime di commozione. Non guardateci come si guardano i folli, scuotendo la testa con fare di biasimo. Osservate invece cosa può fare l’umanità, aggrappata alla propria goccia di vita sperduta nel cosmo, quando decide di superare confini e divisioni.