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A Christmas Carol: la magia del Natale che dura dal 1843

“Ho cercato, in questo piccolo libro di spiriti, di evocare il fantasma di un’Idea che non metta i miei lettori di cattivo umore verso sé stessi, o gli altri, o nei confronti del periodo festivo, o contro di me. Che possa infestare piacevolmente le loro case senza che alcuno desideri scacciarlo. Il loro fedele amico e servitore, Dicembre 1843 C.D.”

di Jenny Barbieri

Nel Canto di Natale Disney solo zio Paperone poteva vestire i panni del vecchio… Scrooge!

Poche righe, una breve introduzione o, forse meglio, una rivolta dedicata a ciascuno di noi lettori nientemeno che da Charles Dickens in persona; in questo modo prende avvio uno dei primi racconti di Natale della storia, ormai unanimemente considerato la favola natalizia per eccellenza: A Christmas Carol. A oggi ne esistono innumerevoli adattamenti teatrali, ben venticinque film, dalla versione animata della Disney a quella in 3D con Jim Carrey come protagonista, che ne riproducono fedelmente la vicenda; non passa un dicembre senza che qualche varietà televisivo lo citi, non c’è Natale senza che una nuova edizione ricevuta in dono finisca per adornare la biblioteca di qualche lettore fortunato. Un piccolo libro tanto letto e amato che alcune frasi in lui contenute sono ormai entrate a pieno diritto nella lingua comune in qualità di espressioni idiomatiche: si pensi al “Bah! Humbug!” (“Bah! Sciocchezze!”) pronunciato spesso da Scrooge e, oggi, parte integrante di molte conversazioni inglesi.

La trama è nota a tutti: Scrooge, vecchio uomo di affari caratterizzato da un’avarizia di plautina memoria, in occasione del Natale riceve la visita di tre diversi spiriti che, con i loro insegnamenti, lo inducono a ravvedersi e a modificare il suo carattere. Tutto sommato, un plot narrativo semplice e lineare, originale certo, ma non straordinario. I motivi del successo di quest’opera sono, quindi, da ricercare altrove, in altri aspetti che la caratterizzano.

A Christmas Carol viene pubblicato per la prima volta nel 1843, in un volume rilegato in tessuto rosso impreziosito da decorazioni dorate, al suo interno numerose e dispendiose illustrazioni dipinte a mano. A scegliere questa tipologia di editing fu proprio Dickens in persona: l’autore credeva molto nelle possibilità di successo del suo ultimo racconto, al punto da volerne seguire ogni singola fase di produzione e da essere disposto a investire nel progetto non poco denaro, nonostante le sue finanze, in quel periodo, non fossero floride. Nelle intenzioni di Charles, a questo librino spettava il compito di compensare il flop di Martin Chuzzlewit e, in effetti, se ne vendono un numero importante di copie, ma non abbastanza da pareggiare gli alti costi di produzione e lasciare margini di guadagno. Dal 1843 in avanti, a eccezione dell’anno 1847, in occasione del Natale, Dickens darà alle stampe una nuova favola a tema, ma nessuna è anche solo paragonabile a Canto di Natale.

Pochi anni prima, nel 1843, Thomas K. Hervey diede alle stampe un volume, intitolato The Book of Christmas, in cui vengono narrate le antiche tradizioni natalizie. Correva l’anno 1841, due anni prima della pubblicazione del racconto di Dickens, quando nel Castello di Windsor fu addobbato il primo albero di Natale inglese: questa tradizione, infatti, non era propria del mondo anglosassone, ma vi fu importata dal principe consorte Alberto di Sassonia che, avendo nostalgia della sua terra di origine, volle ricrearne un angolino anche nel suo nuovo Paese. E ancora, proprio nel 1843 assistiamo alla nascita delle prime cartoline augurali a tema natalizio.

In un certo senso, dunque, lo scrittore inglese si inserisce in un contesto di recupero delle tradizioni festive inglesi, compiendo un’intelligente mossa di marketing ante litteram. Analizziamo per un attimo il titolo dell’opera: Carol, ossia la carola, era un inno che si era soliti cantare e danzare tenendosi per mano, in base a una consuetudine rurale inglese molto in voga fra XIV e XVI secolo. Nell’Ottocento l’usanza era ormai quasi scomparsa, riprenderà vita proprio grazie a questo libricino.

Non solo il titolo: Dickens recupera anche la struttura dell’opera dalla tradizione letteraria anglosassone, in particolare traendo spunto e ispirazione dal genere delle moralities, rappresentazioni teatrali di carattere morale o religioso, con uno scopo pedagogico ben preciso. E, in effetti, leggendo Canto di Natale, sembra di trovarsi davanti a un palcoscenico: le indicazioni spazio-temporali, la descrizione degli oggetti che improvvisamente si animano, i molti dialoghi diretti frequenti sono tutti escamotage stilistici che concorrono a farci visionare la scena proprio come se prendesse vita davanti ai nostri occhi. Per non parlare, poi, della finalità educativa: la tensione narrativa è costantemente incentrata sulla possibilità che Scrooge capisca i propri errori, si ravveda e inizi a comportarsi in maniera diversa, socialmente e moralmente più accettabile. Da notare come in Dickens la speranza di cambiamento sia valida per tutti, nessuno escluso: diversamente da quanto accadeva con autori del passato, in cui i personaggi simbolo di una deviazione morale non potevano sfuggire all’archetipo che rappresentavano (e penso all’avaro di Plauto o di Molière, entrambi intrappolati in eterno nel loro errare), qui il protagonista riesce a sfuggire a ogni canone, liberandosi del proprio vizio, al fine di intraprendere un percorso di vita migliore. È proprio quando Scrooge si libera dall’avarizia che ha inizio la sua riabilitazione, non solo personale ma anche sociale: non solo la collettività lo accetta come proprio membro, ma egli stesso brama di farne parte e realizza questo suo desiderio rendendosi utile in qualità di padre putativo del piccolo Tim.

Nonostante le atmosfere fantastiche che ci accompagnano a ogni pagina di A Christmas Carol, Dickens non rinuncia, nemmeno in un racconto di Natale, a raccontare il mondo vero e reale che si muove attorno a lui. Anche in questa sua opera, come in molte altre dello stesso scrittore, ci troviamo, infatti, dinanzi a un fenomeno di “rispecchiamento”: le scene che ci vengono presentate sono quelle che sia l’autore sia un lettore del suo tempo potevano scorgere guardando fuori dalla finestra di casa o, semplicemente, svoltando un angolo delle vie cittadine. Un mondo fatto di mendicanti in cerca di un obolo, operai che riparano le tubature del gas, non prima, però, di aver acceso un fuoco per resistere al freddo dicembrino, negozi scintillanti, illuminati da lampade che arrossano le pallide facce dei passanti. Una realtà non molto distante a quella che potremmo incontrare anche oggi, nel paese o nella città in cui viviamo, uscendo a fare gli ultimi acquisti per Natale. Un mondo che trasuda realtà. E, forse, Dickens riesce a trasmettercelo in modo così intenso proprio grazie all’esperienza che ne aveva personalmente avuto: ricordiamoci, infatti, che, poco più che bambino, finì a lavorare in una fabbrica di lucido per scarpe per aiutare la famiglia e, anche da adulto, ormai affermato scrittore, la sua situazione economica fu sempre precaria, anche a causa degli indebitamenti fraudolenti che il padre faceva a suo nome.

E i fantasmi? Non possiamo certo scordarci di loro. Tre diverse forme ultraterrene, chi simpatico, chi inquietante, chi misterioso; probabilmente sono i personaggi che più ci colpiscono, la prima volta che leggiamo Canto di Natale. Il loro compito è quello di farci viaggiare nel tempo e nello spazio: nel momento in cui ripercorriamo la vita di Scrooge non possiamo non fermarci a pensare ai nostri ricordi d’infanzia, ai nostri timori per il presente, alle nostre aspirazioni future. Consiste anche in questo la genialità di Dickens, nell’aver saputo creare tre entità fantastiche grottesche che si sfumano e si frammento non solo nel sogno e nell’incubo del protagonista della storia, ma anche nella mente di ciascun lettore.

Perché Canto di Natale è così letto e apprezzato ancora oggi? Perché parla dell’uomo nella sua universalità: in tutti noi è celata una parte che ricorda Scrooge, la parte dei nostri difetti che, nonostante ci si sforzi di tenere a bada, a volte prende dispettosamente il sopravvento. Le paure del vecchio avaro sono le nostre, per gli errori commessi nel passato o per quelli che temiamo di fare in futuro. Ma in noi è anche presente la parte buona, quella che apprezza la famiglia, i piccoli gesti compiuti col cuore, il Natale come festa in cui stare insieme per condividere sogni e speranze. Sono passati quasi due secoli da quando Charles Dickens ci ha lasciato la dedica riportata a inizio articolo, e i suoi fantasmi ci tengono ancora compagnia ogni anno, trasmettendoci l’Idea di un Natale che sia momento di riflessione, spunto di cambiamento in meglio, magico miracolo.

“Onorerò il Natale nel mio cuore, e cercherò di conservarmi in questo stato d’animo per tutto l’anno. Vivrò nel passato, nel presente e nel futuro, e i tre spiriti saranno sempre presenti in me”.

Questo accade a Scrooge alla fine della vicenda, e accade, in un certo senso, anche a noi quando sfogliamo l’ultima pagina.


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