Cultura Letteratura

Gente di Dublino: la nascita del flusso di coscienza in una città immobile

Per la serie Forse non tutti sanno che... la storia di questo romanzo doveva inizialmente essere uno dei racconti di “Gente di Dublino”, tra le prime opere dello scrittore irlandese.

di Jenny Barbieri           

Il capitolo “I morti” manoscritto da James Joyce

James Joyce: sentendo questo nome, è impossibile non pensare immediatamente a uno dei maggiori capolavori letterari del secolo scorso, a quel monumentale romanzo che si intitola “Ulisse” e che è, al contempo, massima espressione della tecnica dello stream of consciousness e manifesto del movimento modernista. Non tutti sanno che la storia di questo romanzo doveva inizialmente essere uno dei racconti di “Gente di Dublino”, tra le prime opere dello scrittore irlandese. Ma andiamo con ordine.

James Joyce nasce a Dublino nel febbraio del 1882, in una famiglia profondamente cattolica, appartenente alla buona società. Sin dagli anni del college, viaggia molto in Europa, vivendo in città quali Parigi, Roma, Trieste e Zurigo. Sicuramente potremmo definirlo un grande cosmopolita, ma fu anche uno dei maggiori scrittori locali irlandesi: quasi tutti i suoi lavori sono, difatti, ambientati nelle vie di Dublino, a partire proprio dalla raccolta di racconti. La città che si avverte attraverso le storie dei suoi abitanti è la Dublino vera di inizio Novecento, o, quantomeno, la reale percezione che di essa aveva l’autore. Joyce sposa la corrente del realismo sin da questa opera prima e usa uno stile ricco di dettagli per descrivere ogni aspetto della realtà che lo circonda, anche quelli più umili e che potrebbero considerarsi poco importanti e degni di attenzione. Ne emerge il ritratto di una capitale grigia, priva di opportunità, schiava del passato e ostile verso ciò che si presenta come nuovo, straniero ed esotico. Le caratteristiche della città si rispecchiano e si ritrovano anche nei suoi abitanti: i personaggi dei vari racconti, indipendentemente dal loro sesso, dalla loro età o dal loro ceto sociale di appartenenza, hanno come peculiarità l’immobilità: si trovano bloccati in una stasi fisica e morale, di cui spesso non hanno nemmeno coscienza.

Emblematico, a tal proposito, è il racconto “Una piccola nube”: in esso, Thomas Chandler, uomo timido, dedito al suo lavoro e che non ha mai lasciato Dublino, incontra un vecchio amico, Ignatius Gallagher. Quest’ultimo è assente dall’Irlanda da ben otto anni e intrattiene l’amico ritrovato narrandogli le varie esperienze vissute tra Londra e Parigi. Chandler prova, nei suoi confronti, invidia e frustrazione: lui è superiore per nascita e cultura, ama e conosce la letteratura e certamente avrebbe potuto trarre molto più profitto dal vivere in città così culturalmente vivaci, peccato solo per la sua timidezza e il suo poco coraggio: in cuor suo sa che non avrà mai la forza di abbandonare un porto sicuro per rincorrere il suo sogno. Così, finita la serata, torna a casa dalla sua famiglia, più triste che mai in quanto ha preso coscienza della sua situazione di stasi che nulla potrà mai cambiare. In questa novel abbiamo due elementi, uno tematico e uno stilistico, che torneranno con insistenza non solo in quest’opera, ma nell’intera produzione di Joyce. Dal punto di vista dei temi, troviamo il binomio fuga/paralisi, il desiderio momentaneo, che colpisce tutti i personaggi, di allontanarsi da una realtà che appare loro troppo stretta, non in grado di farli sentire realizzati, ma che nessuno di loro metterà mai in atto poiché non in grado di sottrarsi all’immobilità che avvolge la città e il tempo. In ambito stilistico, siamo davanti a un perfetto uso della tecnica, tanto cara a Joyce, dell’epifania, grazie a cui un oggetto quotidiano o un fatto ordinario e banale (in questo caso un incontro con una vecchia conoscenza), causano nei personaggi una visione spirituale, che permette loro di prendere coscienza del proprio reale stato.

Se è vero che in quasi tutti i racconti abbiamo prova della maestria e delle particolarità stilistiche del letterato irlandese, è anche vero che “Eveline” spicca per importanza su tutti. Perché? Non certo per la storia, di per sé abbastanza banale: la protagonista è una giovane adolescente insoddisfatta, che sogna di lasciare la casa e la città in cui è cresciuta, per trasferirsi nell’esotica e solare Buenos Aires col ragazzo di cui è innamorata e che, ovviamente, il padre le impedisce di frequentare. Una trama abbastanza comune, anche se, quando si parla di adolescenza e sogni di libertà,  l’immedesimazione scatta automatica. L’originalità della novella sta nella modalità utilizzata da Joyce per raccontarcela: a parlare è proprio la giovane, ma non attraverso un racconto ordinato cronologicamente, bensì seguendo il filo dei suoi pensieri, raccontandoci le varie situazioni passate a seconda di come gli oggetti reali le riportano alla memoria. Il racconto si snoda, quindi, seguendo il tempo del ricordo, in un primo tentativo di misurarsi con la tecnica del flusso di coscienza che, diventerà, poi, cifra distintiva dello scrittore.

Per inciso, Eveline non fuggirà, ma, sentendosi in obbligo verso la sua famiglia e sentendosi legata da una promessa fatta alla madre morente, deciderà di restare a Dublino e non si imbarcherà col ragazzo, ma rimarrà sulla banchina, ferma, immobile, con lo sguardo perso e passivo. Infine, non possiamo non menzionare il racconto che conclude la raccolta: “I morti”. Esso è la summa tematica e stilistica dell’intera opera. Ci troviamo a una festa e nulla succede, solo un susseguirsi di dialoghi su vari argomenti, che non sfociano mai in veri scambi di opinioni: tutti gli accenni a temi scomodi, che potrebbero portare a dei confronti, vengono bloccati sul nascere. Solo a fine racconto, una musica porta casualmente in vita il ricordo di un amore passato. Questa epifania darà spazio a una riflessione sul senso della vita, sul correre tutti verso la morte, sul trovarsi tutti uniti, ombre del passato e del presente, sotto una neve che, candida, ovatta tutte le esistenze.

Anche solo da questa breve analisi, possiamo comprendere la modernità che Joyce conferì a tutti i racconti di “Gente di Dublino”, descrivendo la vera Dublino e la vita quotidiana dei suoi abitanti, con una lessico ricercatamente aderente alla realtà, senza fare sconti a luoghi o a persone, strizzando l’occhio a una feroce critica sociale e rompendo, senza remora alcuna, tutti gli schemi imposti dai modelli letterari del passato. Non è un caso che l’opera venne pubblicata solo nel 1914, dopo aver ricevuto diciotto rifiuti da ben quindici diverse case editrici. Ma, per nostra fortuna, alla fine questo capolavoro venne dato alle stampe e iniziò il percorso che lo ha condotto sino a noi, regalandoci la possibilità di passeggiare, restando comodamente a casa, nello spazio e nel tempo, fino a raggiungere una città che non esiste più se non tra quelle pagine: la vera Dublino dei primi anni del Novecento.


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