di Salvatore Nicosia

Degli innumerevoli termini greci composti con misos “odio”, misànthropos è certamente uno dei più antichi, già attestato presso vari autori della seconda metà del V secolo a.C. Veramente, l’“odio per l’uomo” doveva esserci anche prima, connaturato se non proprio al primo esemplare della specie, almeno al secondo. Ma è con la creazione del termine specifico che si sancisce la nascita ufficiale di una ben definita tipologia umana, di una categoria etica, di una ben individuata funzione sociale: c’è il misantropo così come c’è il contadino, il calzolaio, il poeta, il soldato, l’avaro. E se ciascuna di queste figure attinge a una determinata attività, la propria identità personale e sociale, il misantropo si realizza nella assolutezza, nella costanza, nell’indefettibilità di un sentimento: l’avversione per il genere umano e per tutti i suoi rappresentanti. Con la creazione dell’astratto misanthropìa (Platone, intorno al 400 a.C.), la concettualizzazione è completa.
Ci saranno in seguito altri odiatori: dei barbari (il misobarbaro), dei Persiani (il misopersiano), del popolo (il misodemo), della sapienza (il misosofo), della città (il misopoli), del discorso (il misologo): ma il primo, il più diffuso, l’assoluto, quello che tutti insieme li comprende e li include in sé, è l’odio per l’uomo allo stato puro, indipendentemente dalle determinazioni spaziali e temporali, senza escludere i prodotti della sua attività, e neppure la divinità, causa prima di tanto flagello. Il periodo in cui si forma il termine “misantropo” è, più o meno, quello stesso in cui vive un certo Timone ateniese, passato alla storia, e alla leggenda, come la personificazione antonomastica della misantropia. Della sua biografia non si sa pressoché nulla: e chi avrebbe potuto trovare qualcosa da dire sulla vita di un uomo “celibe, senza servi, irascibile, inaccessibile, truce, solitario, chiuso nei propri pensieri” (Frinico), di “un vagabondo col volto cinto di spini inaccessibili” (Aristofane)? Solo la commedia, appunto, si mostra interessata ai risvolti “teatrali” di un simile personaggio, contribuendo in maniera decisiva alla formazione della sua leggenda. Nascono così i particolari biografici funzionali alla definizione di una figura che tende a staccarsi sempre più dalla realtà storica per assumere i contorni e la dimensione teatrale del tipo umano: la causa scatenante della misantropia individuata in una delusione per le truffe subite dagli amici; l’amicizia per Alcibiade motivata soltanto dall’intuizione che quel giovanotto prometteva di procurare – come in effetti procurò – molti guai ad Atene; il discorso politico da lui pronunziato all’Assemblea, quando invitò gli Ateniesi a far presto se volevano servirsi del pero del suo campo, già tante volte utilizzato dai suicidi, prima che lui lo sradicasse per far posto a una costruzione; e infine la morte per una frattura andata in cancrena e mai curata, a evitare ogni ravvicinato contatto con l’aborrito essere, si presentasse pure nelle vesti di un medico. I poeti ellenistici gareggiarono nell’invenzione di epitaffi adeguati a un simile personaggio. Era un sottile esercizio intellettuale, se si considera che la tomba iscritta ha, nella concezione dei Greci, la funzione di iscrivere un individuo nella memoria collettiva, consentendogli di continuare in qualche modo a vivere tra gli uomini.
Si immagina così che l’epitaffio di Timone neghi il nome alla curiosità del passante, lo avverta di tenersi alla larga perché potrebbe ancora mordere, lanci al suo indirizzo insulti di ogni genere. Ma il culmine dell’arguzia lo attinge senz’altro Callimaco: “Timone, ora che non sei più, cos’è più odiosa per te, la luce o la tenebra?” – “La tenebra: perché voi uomini, quaggiù, siete più numerosi.”
Articolo apparso in origine sulla rivista Agonistika News di gennaio-marzo 1992
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