di Jenny Barbieri

È una notte buia e tempestosa (come direbbe Snoopy ndr), le tenebre sono calate già da tempo sugli Appennini e lì, in una località non meglio definita, un uomo ferito e il suo servitore stanno cercando un rifugio, qualsiasi soluzione che consenta loro di non dover passare la nottata all’addiaccio. Casualmente si imbattono in un castello, nessuna luce, nessun accenno di vita, solo il buio e un ingresso sprangato che, a breve, oseranno forzare.
In poche, pochissime righe abbiamo ricreato un perfetto clima gotico, la nostra mente è già pronta a chiamare all’appello tutto il coraggio di cui disponiamo per sentire il prosieguo della vicenda. Il merito? Di certo non mio, ma di un grande scrittore americano, unanimemente ritenuto lo scrittore dei nervi per eccellenza: Edgar Allan Poe. Considerato uno dei più influenti scrittori statunitensi, con le sue opere ha dato il la all’affermarsi di diversi generi letterari come il racconto poliziesco, la letteratura dell’orrore, il giallo psicologico. Poe partì dalla letteratura gotica, che tanto era in voga nel 1800, e la condusse al raggiungimento di vette stilistiche inaspettate, grazie alla commistione di generi letterari anche molto diversi tra loro, alcuni dei quali talmente nuovi da trovare proprio in questi scritti la loro stessa iniziazione. Leggere la raccolta “I racconti del terrore” significa intraprendere non un viaggio solo, ma tante diverse avventure: a volte ci sembra di raggiungere la parte più inesplorata dell’animo umano, altre ci troviamo a Venezia pronti a vestire i panni di testimoni di una storia d’amore tra le più struggenti, altre ancora combattiamo accanto al protagonista per trovare ingegnosi escamotage che ci permettono di sopravvivere all’Inquisizione spagnola, o ci troviamo a tremare di paura per la presenza di spiriti ultraterreni o davanti a inspiegabili fenomeni di reincarnazione. I suoi racconti non sono scritti solo per divertire o spaventare: con ironia e semplicità ci nascondono un mondo intero, il mondo dell’uomo e della sua humanitas. Proprio questa caratteristica, il suo usus scribendi universalmente valido, ha fatto sì che Poe riscuotesse grande stima tra i suoi colleghi scrittori, al punto da influenzarne molte opere: il racconto intitolato “William Wilson” (1939) sviluppa il tema dello sdoppiamento della personalità che, quasi cinquant’anni dopo, verrà trattato anche dal romanzo di Robert Louis Stevenson ne “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” (1886); invece le atmosfere descritte ne “La caduta della casa Usher” (1839) hanno certamente anticipato e ispirato le suggestioni presenti nell’opera di Bram Stoker.
Ma torniamo all’atmosfera che abbiamo ricreato a inizio articolo: ebbene, altro non è che l’incipit di uno dei racconti più brevi e, ahimè, meno noti di Poe. Eppure, come vedremo, proprio da queste poche pagine trae spunto un altro scrittore inglese per dar vita a uno dei romanzi cardine della letteratura moderna: stiamo parlando di niente meno che Oscar Wilde e il suo capolavoro “Il ritratto di Dorian Gray”. L’uomo ferito che si trova a dover forzare l’ingresso di un castello incontrato casualmente nel mezzo degli Appennini è, infatti, il protagonista del racconto “Il ritratto ovale”, inizialmente edito con il titolo “Life and Death”. Di lui non sappiamo molto, solo che è gravemente ferito e che, al fine di poter sopravvivere alla notte, sceglie di ripararsi, insieme al suo servitore e suo unico compagno di viaggio, in un castello che all’apparenza sembra essere stato abbandonato da non molto tempo. Non riuscendo a dormire per l’intensità del dolore, l’uomo decide di occupare la nottata guardandosi intorno: nonostante avesse scelto di occupare le stanze più piccole e arredate meno sontuosamente, intorno a lui fanno bella mostra di sé un’infinità di originalissimi quadri moderni dalle ricche cornici dorate di stile arabesco. A colpire la sua immaginazione è un quadro in particolare: in esso è ritratta una giovane donna, bella certo, altrettanto sicuramente dipinta con maestria, ma non di una bellezza tale da catturare l’attenzione dello spettatore in un modo tanto inusuale. “Avevo scoperto che l’arcana magia del dipinto risiedeva nell’espressione così vivida, così perfettamente conforme alla vita stessa, tanto da lasciarmi prima sbalordito e poi confuso e inquieto.”
Per quelle strade strane e tortuose che, a volte, seguono il destino, accanto all’uomo si trova, sempre casualmente, un libricino, contenente le storie delle varie opere esposte nella stanza. In questo modo, veniamo a conoscenza di una vicenda accaduta tempo prima, quando una giovane di rara bellezza e di altrettanto rara leggiadria si innamorò perdutamente di un pittore, fino al punto di sposarlo. Quello che la ragazza ignorava era che il novello sposo, in realtà, era già impegnato in un amore totalizzante, quello che provava per la sua Arte, sua vera e unica sposa. Obbedendo al volere del marito, la giovane accetta di farsi ritrarre: così, per giorni e giorni, si trova seduta in una torre fredda, con solo una pallida luce che cadeva dall’alto a illuminare debolmente la stanza e con l’unica compagnia del pittore che non vede altro se non la tela. Il dipingere assorbe totalmente l’attenzione dell’uomo che, contento per il risultato che sta ottenendo, non si avvede minimamente del deperimento che sta causando nella sua sposa, sempre meno sorridente, luminosa, viva. E così, in un lampo, sono passate settimane e ci troviamo ad assistere all’ultima pennellata: «E la pennellata fu data, fu applicato quel tocco di colore e, per un attimo, il pittore ammirò rapito l’opera che aveva portato a termine. Ma un attimo dopo, mentre ancora la contemplava, tremò e divenne pallido in viso, poi colmo di terrore esclamò “Ma questa è proprio la Vita!” Di colpo alzò gli occhi per guardare la sua amata, ma lei era morta!»
Poche pagine e già siamo giunti alla fine del racconto, ma i nostri interrogativi restano aperti: chi è il protagonista della storia? Come ha reagito il pittore alla morte prematura della sua sposa? Ma non solo, a farci compagnia sono anche le domande relative alle tematiche più profonde toccate dall’autore: che potere e che ruolo ha l’arte nelle nostre vite? L’arte è vita, è morta, è entrambe le cose? E, forse, tutti questi quesiti sono quelli che fanno sì che quanto narrato continui a rivivere nella mente del lettore, portandolo a una riflessione continua, che dona sempre nuova intensità al racconto. Aspetto caratteristico della scrittura di Poe, evidentissimo anche in queste pagine da noi analizzate, è l’affrontare molti temi importanti, anche solo di sfuggita, ma sempre in modo profondo, lasciando a noi lettori il compito di riflettere in merito. Ne Il ritratto ovale, ad esempio, oltre alle tematiche connesse all’arte, al rapporto tra gli artisti e il loro lavoro e su cui torneremo a breve, troviamo accennato il motivo del ruolo della donna all’interno della coppia: così come la ragazza del ritratto sacrifica se stessa sino alla morte per accontentare i desideri del marito, sicuramente molto donne nell’Ottocento ma anche oggi accantonano i loro sogni, i loro desideri, le loro occupazioni per il quieto vivere all’interno della coppia. O ancora, impossibile non cogliere la velata critica a quella sorta di malattia borghese che porta gli uomini all’inseguimento quasi ossessivo di alcuni obiettivi lavorativi come unico modo per sentirsi pienamente realizzati.
Al centro del racconto vi è indiscutibilmente l’arte, colta contemporaneamente in tutte le sue diverse sfaccettature: il pittore la vive come un’esperienza totalizzante, come sua unica ragione di vita; la giovane sposa-musa la sopporta a malapena, la asseconda, ma per lei è un’entità che la priva di gioia e vita; l’uomo ferito ne trae giovamento, attraverso l’osservazione dei quadri nella stanza riesce momentaneamente a scordare i suoi dolori fisici, vi riscontra un potere quasi salvifico. Edgar Allan Poe ci presenta tutti questi aspetti, senza mai propendere per uno o l’altro, senza mai influenzare la nostra idea di arte in base alla quale ognuno di noi darà la sua personalissima interpretazione del racconto. Tuttavia, va evidenziato come la scelta del ritratto quale veicolo per parlare di arte non sia superficiale: riportare su tela un viso, soprattutto prima della nascita della fotografia, rappresenta una vera e propria sfida nei confronti della natura, in quanto consiste nel ricreare un doppio dell’essere umano, emblema della potenza creatrice dell’ordine naturale. Quest’eterna lotta è testimoniata anche dall’uso di iscrivere sulle tombe di molti pittori epitaffi in cui la natura viene descritta come invidiosa delle abilità dell’artista scomparso.
Come molti altri racconti di Poe, anche “Il ritratto ovale” fu tradotto ed edito nel 1855 sul giornale Le Pays da un grandissimo poeta francese, Charles Baudelaire e, verosimilmente, Oscar Wilde ne venne a conoscenza proprio grazie a questa traduzione.
I punti di incontro presenti tra l’opera dello scrittore americano e il grande romanzo inglese sono molteplici, a partire dalla centralità data da entrambi a un tipo specifico di arte, per l’appunto quella ritrattistica. In entrambi, inoltre, è presente un parallelismo tra vita reale e vita dell’opera d’arte: come al deperire della giovane ragazza corrisponde una vitalità sempre più intensa della tela, così al compimento di azioni nefaste da parte di Dorian Gray corrisponde un deperimento estetico del suo doppio artistico. In entrambe le narrazioni, inoltre, ci vengono presentati due pittori affascinati a tal punto dalla loro opera da non accorgersi di quanto accade alla persona che la ispira: da una parte abbiamo, infatti, un marito che priva la moglie del suo fiato vitale senza rendersene conto se non quando è ormai troppo tardi per porvi rimedio, dall’altra Basil Hallward idealizza il suo modello sino a quando scopre la verità grazie alla visione dello stato di deperimento della sua opera, evento che, tra l’altro, sarà causa della sua morte.

Resta, tuttavia, un’immensa differenza nel modo di affrontare la narrazione da parte dei due autori: se Wilde prova a dare una spiegazione razionale a ogni evento che avviene nel suo romanzo, Poe non si pone il problema di separare il reale dal fantastico, tanto meno di offrirci spiegazioni o risposte universalmente valide. L’unica domanda a cui entrambi gli scrittori sembrano non riuscire a dare risposta certa è quella relativa al ruolo dell’arte: il pittore descritto da Poe era davvero disposto a rinunciare alla sua amata solo per poter produrre la sua migliore opera o era ignaro delle conseguenze verso cui si stava incamminando? Similmente, Dorian era sicuro di non correre rischi accoltellando proprio quel ritratto che riportava tutti i segni della sua vita sconsiderata o, forse, ha voluto compiere consapevolmente un gesto estremo, l’unico che gli consentisse un seppur minimo recupero di moralità? Ora la risposta tocca a noi lettori, siamo noi che veniamo chiamati a riflettere, a dare delle interpretazioni in base alle nostre idee e al nostro vissuto, a cambiare, anche, parere in base alla fase della nostra vita in cui entreremo in contatto con questi testi. Per questo, Il ritratto ovale, così come Il ritratto di Dorian Gray, saranno opere sempre attuali, che non smetteranno mai di affascinare e ispirare, nonché di intrigare con quel loro caratteristico guizzo di magia.