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9 settimane e 1/2: l’American Psycho dietro lo yuppie di Rourke

Un Mickey Rourke tutto divismo animale e fascino maledetto e una splendida Kim Basinger, consegnati agli annali della cinematografia con il sensualissimo spogliarello sulle note di «You Can Leave Your Hat On» di Joe Cocker.

di Omar Di Monopoli

Mickey Rourke e Kim Basinger nel famigerato film di Adrian Lyne

Con tre nomination per i Razzie awards (gli Oscar per i film brutti) sul groppone e la sbrigativa nomea di capostipite del genere erotico-chic, «9 settimane e 1/2» uscì al cinema nel 1986, ebbe – a dispetto dello snobismo della critica – un successo planetario (in patria meno che in Europa) e consacrò la fama di due stelle all’epoca nel pieno rigoglio del proprio splendore: quella di un Mickey Rourke tutto divismo animale e fascino maledetto, e quella della splendida Kim Basinger, consegnata qui agli annali della cinematografia con il sensualissimo spogliarello eseguito sulle note di «You Can Leave Your Hat On» by Joe Cocker.

Pure, questa storia d’amore malata, nettata della patina sfarzosamente glamour con cui il regista Adrian Lyne seppe rivestirne la confezione, affronta in realtà la vertigine di profonda solitudine e alienazione in cui proprio l’edonismo reaganiano di quegli anni ha contribuito a far rotolare la società attuale. Sotto le spoglie infighettate dell’eros da copertina, «9 settimane e 1/2» ci parla di destino e di capacità di autodeterminazione, di dipendenza affettiva, e di tossicità dei rapporti umani. Fresco del successo clamoroso di «Flashdance» (1983), Lyne s’innamorò del romanzo omonimo di Elizabeth McNeill decidendo di trasporlo al cinema. Lo edulcorò delle parti più scabrose mantenendo intatta la relazione insana tra la gallerista Elizabeth McGraw (la Basinger, appunto) e un cinico broker di Wall Street, John Gray (Rourke, mai più così in tiro). Entrambi i personaggi apparentemente solari celano uno sconcertante istinto autodistruttivo: Elizabeth è divorziata e persegue inconsapevolmente il bisogno di una figura affettiva dominante; John ha invece tagliato con la propria famiglia ed è uno yuppie rampante, devoto esclusivamente al principio del piacere.

Tra i due, scoccata la scintilla, sarà dapprincipio un’esplosione di gioia e seduzione (l’oramai famigerato love bombing, in cui il predatore si mostra al meglio diventando indispensabile per il predato, a sua volta affamato di qualcosa che non sa di volere) salvo scoprire, nell’arco di tempo eponimo, quanto la «corrispondenza di amorosi sensi» funga in realtà da detonatore di un patimento che entrambi si portano appresso come un fardello putrido e potenzialmente letale. Ben presto è evidente che il gioco sessuale ossessivo sempre più estremo in cui i due protagonisti si cimentano durante i loro rendez-vous non è un semplice sfizio tra borghesi annoiati ma la risposta (patologica) ad un vuoto profondo che li attanaglia, un senso di fine imminente che di fatto rende possibile la dolorosa complicità tra due personalità nevrotiche: John è sadico, narcisista, incapace di abbandonarsi al sentimento. Elizabeth è invece masochista, empatica, e decisamente dipendente. Ad un certo punto sarà quest’ultima – chi altri sennò? Tutti e due stanno soffrendo, ma lei ne porta i segni evidenti sulla pelle, lui ha cicatrici, dolorosissime, solo all’interno – ad aver contezza degli abusi dell’altro: il ghiaccio sui capezzoli, le acrobazie con il cibo, la manipolazione dei desideri («non t’importa se mi piace?», «No, per niente!»), le punizioni corporali e le reiterate umiliazioni (come il costringerla al ménage con una prostituta) sono fasi crescenti di una relazione dolorosa ed asimmetrica in cui entrambe le pedine giocano a perdere.

L’abitazione di John, perennemente illuminata da luci fredde, è arredata nel tipico stile lussuoso del periodo (design modernista, architetture asettiche): grandi spazi caratterizzati da una pulizia maniacale e pochi oggetti disposti in maniera razionale. Gli armadi lindi, zeppi di vestiti eleganti, tutti uguali. La vita di John è vuota come la sua abitazione, i suoi sentimenti vetrificati, la sessualità perversa in vece di qualsivoglia forma di trasporto che richieda partecipazione e verità. John, perfettamente interpretato da un attore che ha dimostrato di possedere i medesimi istinti autopunitivi del personaggio (non stiamo a farla lunga: Rourke è un grande attore ma, professionalmente parlando, si è dato la zappa sui piedi più volte), racchiude e personifica in sé molte delle contraddizioni del capitalismo ed è, de facto, l’antesignano più plausibile di Patrick Bateman, l’assassino in carriera protagonista del più noto romanzo di Bret Easton Ellis.

Lyne è, come scrisse il Morandini, «un regista furbo» che si diverte a criticare gli standard della società competitiva degli Eighties (che sono in fondo i medesimi di oggi) impacchettando il proprio messaggio in un involucro charmant che, per paradosso, è speculare al bersaglio della sua rappresentazione: il montaggio pubblicitario, la colonna sonora che ammicca, una fotografia estetizzante (firmata Peter Biziou) grazie alla quale New York si fa panorama oleografico sino a rivelare, di notte, nascondigli e sottopassaggi inondati dall’acqua nei meandri dei quali John ed Elizabeth fanno l’amore acrobaticamente fasciati da spade di luce (con «Arpegiator» di Jean-Michel Jarre e «I Do What I Do» di John Taylor in sottofondo). E lo scandalo è servito. Quando, favorita anche dal contatto con un artista della sua galleria che vive all’esatto opposto di John (casa calda e disordinata, prospettiva esistenziale completamente esente dall’arrivismo), Elizabeth comprende la finzione che regola il rapporto di cui è diventata schiava, metabolizza la fine e trova la forza di licenziare l’incantatore per tornarsene, in lacrime, invecchiata di nove settimane e mezzo, a fare la gallerista in una metropoli immensa e colorata dove, tra i lustrini e le paillettes, ci si scopre ogni giorno più soli e disperati.


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