di Terry Passanisi

«Allocato invito per ricorrenza: recarsi presso contenimento di Grœvaisboi, area 7-§. Chiedo permesso di essere implicato.»
«Penso…» rispose la madre.
In quei frangenti, sembrava che il cervello della donna faticasse a prendere una decisione, che premesse sul cranio fino a incrinarne le pareti e fosse tutto un ribollire.
«Permesso non concesso, Jonathan.»
Se l’aspettava. Anche se, vista la scarsa rilevanza della questione, sperava in una possibilità. Senza rendersene conto, nei secondi intercorsi tra la riflessione e la risposta, aveva stropicciato il completo color neve là della coscia, tra pollice e indice, chiudendo la mano scarna in un pugno nervoso. Il tessuto tornava ad appiattirsi. Prima che il figlio lasciasse la stanza, la madre tornò a dire qualcosa per rinfrancarlo, senza la pur minima ombra di pentimento nella voce. Tra tutte le risposte, il figlio non aveva mai sentito una sola flessione nel tono della donna, una momentanea incrinatura; sempre solo la monotonia del parlare sentenzioso. La porta si richiuse alle spalle, lasciando un ronzio nell’aria.
Nella sua stanza, da solo, stava appoggiato con la schiena al muro. La resina semi-rigida Palt-B, di cui era fatta la parete bitorzoluta, conferiva una certa comodità. Le scanalature antiurto tutt’attorno al perimetro gli ricordavano le valigie rigide che il padre utilizzava per il trasporto delle attrezzature di sperimentazione, affinché non si frantumassero negli spostamenti trans-liminali di simulazione da un settore all’altro. Pendolava la testa, avanti e indietro, dando piccoli colpi secchi dietro di sé. Il ritmo di quel movimento che, a un certo punto, diventava perpetuo lo aiutava a non pensare, a smettere di frazionare. Il computer emise un suono. Sul monitor era comparsa improvvisamente una scritta lampeggiante che ne richiamava l’attenzione. Scattò in piedi, e l’apatia venne subito sostituita dal formicolio dell’entusiasmo. Attraversò flash i corridoi e le intersezioni, baldo-rapido, tanto da sentire il flusso dell’aria scorrere per gli zigomi e attorcigliarglisi sotto le ciocche quadre. Nella sala della madre, il suono sintetico di tutti i confronti spalancò la porta; la donna era immobile.
«Madre! Allocato richiamo dal Terzo settore; Sekto-m segnala cospetto uterpi — zona di telematizzazione; richiesta intervento fridge/breaker in stato avanzato. Rischio? Sconfinamento e permanenza.»
«Ricevo. Penso…» La madre parve fissarlo negli occhi con espressione monotona, un intervallo di tempo più lungo del solito; in proporzione all’importanza che lui attribuiva alla richiesta di concessione, un tempo che pareva infinito. Attimi che s’aggiungevano ad attimi.
«Permesso… non concesso, Jonathan.»
«Ma madre—»
«Richiesta mutuata. Esaminata. Scalare. Il problema nel Terzo settore è stato risolto in ultra-demand. Puoi tornare ai tuoi privilegi, Jonathan.» Non gli rimaneva nessun’altra possibilità. Ripercorse all’indietro intersezioni e corridoi e si immerse ancora, un’altra volta, nell’iridescenza bianca della stanza di riposo. Ore che sembravano giorni. Neanche un’ombra interveniva a distrarlo da quella omogeneità artificiale. Gli HyperLED di ultima concezione erano in grado d’infiltrarsi sotto gli interstizi più reconditi. Raccolto sul letto, la testa fra le mani, appoggiato alla parete-valigia, prima di ricominciare con l’oscillazione del capo, formulò il comando thought-wired per far ripartire il pezzo di musica classica “The End”, di quel genio pre-22nd di Pryda. Non passò neanche un minuto che la madre s’introdusse con veemenza nella stanza.
«Ripristino!», il volume della musica si abbassò fino a estinguersi in un lamento indecifrabile.
«Mal di testa. Ho mal di testa, bambino mio; capiscimi.»
«La musica, la devo ascoltare io!» Con tono stentoreo, inedito, Jonathan si sorprese a inveire (dentro di sé) contro la fragile madre. La voce femminile, senza cambiare alcunché nella frequenza, senza badare all’isteria, al capriccio, a quell’uscita non-in-linea-metodica che poteva ferirla a morte, cercò solo la compassione del figlio.
«Volume non consentito, tesoro mio; mansioni primarie da risolvere: i compiti, i compiti,» disse prima con lo sguardo stanco e infastidito che con le parole. Tutto uguale. Tutti i giorni. La sezione fūd, lo smistamento lèsè, i corridoi, le mansioni, i compiti, le scanalature, lo strato lattescente sulle finiture color #778899. Appoggiò una mano alla parete, percependo il gelo e la vibrazione liquida dell’azoto che scorreva mezzo palmo sotto. Prendeva atto che mai nulla sarebbe cambiato.

Un’aurora a caso. Che mese era? Una nota – non una voce, non un impulso sonoro, non l’elaborazione di un effetto –, una nota e poi altre giunsero dal corridoio dietro l’angolo, quello la cui porta in fondo dà sulla stanza della madre. Corse, svoltò e vide la porta spalancata; la musica giungeva allora forte e chiara: una canzone già sentita ma che conosceva poco, perché non era di suo gradimento. Gli ricordava che, quand’era piccolo, la madre stava sempre a sentirla. Diffusione allargata metropolitana: nelle dimensioni pubbliche non si poteva fare a meno di ascoltarla, quando si usciva fuori per il programma relazioni sociali somministrate. Ricordava la sua manina piccola in quella grande della madre. Riascoltava la canzone dopo tanto tempo, e non la sopportava allo stesso modo di quei giorni lontani, e di quanto la mano grande stringesse la piccola.
La madre stava al solito posto, tranquilla, immobile accanto al tavolo col crisantemo bio-sintetico, godendosi quel gracchiare in low definition. Più Jonathan penetrava nella stanza, più la retrofonia gli trapanava il cervello e gli innestava spiacevoli ricordi.
«Madre, madre! Chiedo ripristino…»
«Jonathan, amore. Richiedi, ti prego.»
«Chiedo un accordo per abbassare il volume della canzone; chiedo un accordo, altrimenti, per ottenere la chiusura della porta…»
«Ricevo. Elaboro. Penso…». Un calo di tensione innescò un microinterrupt e l’abbassamento dell’intensità luminosa (oppure si trattava solo di una fievole speranza).
«Accordo per ottenere negato; accordo di richiedere non conforme a mansioni di tipo sub-cittadino classe 7. Non posso permetterlo, Jonathan: la canzone mi dona piacere; desidero che la porta resti aperta. Privilegio di tipo α per Upper-tutor».
Si risvegliò di soprassalto e sperava fosse solo un sogno, il lacerto di un incubo. La realtà lo catapultò nell’ombra lampeggiante che proveniva, davvero, dal monitor del processore domotico. La minaccia che, questa volta, Sekto-m segnalava (ripensava sempre che, con quella ragazza, era stato addirittura inter-oculare per due settimane) era molto più grave della precedente. Gli uterpi erano riusciti a trasmigrare attraverso la rete neurale fino al Secondo settore, con grandi probabilità di riuscire a invaderlo. Se non si fosse agito subito si sarebbe potuto incorrere in un nuovo disastro bio-generazionale.
«…»
«Ho già rilevato attraverso processore centrale, piccolo mio. Permesso di interpolare non concesso, Jonathan.»
L’uomo fissò la madre con lo sguardo più freddo dell’azoto liquido che borbottava tra le intercapedini. Le labbra gli si contrassero in una smorfia d’odio. Afferrò con entrambe le mani la teca colma all’orlo di amnion rosa, cavi, materiale cerebrale, tessuti organici, e la strappò via con tutte le forze dalla consolle tecno-biochimica. Conservare la madre era stato un errore. Il calo di tensione, stavolta, non era un’illusione. Il computer centrale si riavviò e tornò sotto il suo controllo. «Apri Gate. Induci musica post-22nd a volume massimo.»
Abbandonò l’alloggio per dirigersi nel luogo in cui avrebbe sempre voluto essere. Una minuscola scheggia infilzata nella mano, il tintinnio del vetro in frantumi si era udito fino al Terzo settore. Il figlio ora poteva agire, smettere di pensare, porre fine all’alienazione.
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