Cultura Letteratura

Milan Kundera, il ruolo conoscitivo del romanzo

Continuerà la storia del romanzo europeo o questo genere letterario finirà per morire? Kundera, per spiegarlo nel suo saggio L'arte del romanzo, cita i saggi di Hermann Broch raccolti ne Il Kitsch. In essi "la parola Kitsch designa l'atteggiamento di chi vuole piacere ad ogni costo e alla maggior numero di persone".

di Maria Luisa Mozzi

Ho letto in questi giorni L’arte del romanzo di Milan Kundera, edito da Adelphi per la prima volta nel 1988. La mia copia è una dodicesima edizione ed è del 2008. Il saggio contiene sette Parti, scritte fra il 1985 e il 2005, che, a detta dello stesso Kundera, costituiscono nel loro insieme un’analisi completa dell’arte del romanzo europeo.

Sette mi sembrano le idee principali espresse da Kundera:

1. Ogni romanzo trova la sua ragione di essere nella scoperta di un aspetto dell’esistenza.

2. Occorre studiare non i singoli romanzi, ma la storia del romanzo europeo come successione di scoperte.

3. La natura della conoscenza (conoscenza dell’esistenza) che deriva dal romanzo è diversa e si aggiunge come terza alle conoscenze scientifica e filosofica.

4. La conoscenza che deriva dal romanzo non deve fare i conti con una verità assoluta, ma con la sola certezza dell’incertezza. Il romanzo non risponde, interroga; non giudica, mostra; il romanzo non si pone come apodittico e dogmatico, ma è ambiguo e relativo; il romanzo scopre.

5. Per tutti i motivi sopra elencati, i romanzi confermativi non aggiungono conoscenza e sono al di fuori della storia del romanzo o oltre la storia del romanzo.

6. Il romanzo europeo non può tramontare, data l’importanza conoscitiva che possiede e che la sua storia ci mostra.

7. Il romanzo e la musica hanno molti elementi strutturali in comune.

Le semplificazioni, le sintesi, gli elenchi depauperano di necessità ciò che si vuole esporre.

Provo allora a dare qualche esempio dello spessore del saggio di Kundera. Parto dalla fine della Parte finale, la Settima, che è il discorso pronunciato da Kundera nel 1985, alla consegna del Premio Gerusalemme. Questa parte finale pone fra le altre cose la domanda inevitabile: continuerà la storia del romanzo europeo o questo genere letterario sta morendo? Kundera, per spiegare, cita i saggi di Hermann Broch raccolti ne Il Kitsch. In essi “la parola Kitsch designa l’atteggiamento di chi vuole piacere ad ogni costo e alla maggior numero di persone”. È kitsch chi scrive romanzi che ci strappano “lacrime di intenerimento su noi stessi, sulle banalità che pensiamo e sentiamo”. L’estetica dei mass media, dice Kundera, è inevitabilmente quella del Kitsch, quindi man mano che i luoghi comuni diventano l’unica cosa che si possa scrivere, “a mano a mano che i mass media avvolgono e infiltrano tutta la nostra vita, il Kitsch diventa la nostra estetica e la nostra morale quotidiana” (pagina 226). E tuttavia a Kundera sembra impossibile che una storia come quella del romanzo europeo, con il suo contributo di conoscenza e saggezza, possa finire. Kundera, quindi, non risponde alla domanda e ovviamente non ho intenzione neanch’io di commentare quanto lui dice, che nel saggio fa parte, appunto, di un complessivo interrogare; ognuno ci pensi, se vuole, come vuole.

Preferisco parlare della pars construens contenuta in questa Settima parte, ma anche più estesamente nella Prima parte, che mi affascina. Riguarda i primi quattro punti della mia sintesi iniziale. Kundera parte da Husserl, da Heidegger e dalle loro affermazioni sull’esclusione da parte della scienza e della filosofia del “mondo concreto della vita” e dell'”essere”. Dice: ” È vero che la filosofia e la scienza hanno dimenticato l’essere dell’uomo”, ma è vero anche che “tutti i grandi temi esistenziali che Heidegger analizza in Essere e tempo, giudicandoli trascurati dalla filosofia europea anteriore, sono stati svelati, mostrati, illuminati da quattro secoli di romanzo. Nel modo che gli è proprio, secondo la logica che gli è propria, [il romanzo europeo] ha scoperto, uno dopo l’altro, i diversi aspetti dell’esistenza”: con Cervantes l’avventura, con Samuel Richardson i sentimenti, con Balzac il radicamento dell’uomo nella storia, con Flaubert il quotidiano, il tempo passato inafferrabile con Marcel Proust, l’inafferrabile attimo presente con James Joyce, il mito con Thomas Mann (pagine 17-19).

Questa affermazione ha per Kundera due corollari: la storia del romanzo europeo è una successione di scoperte e, come diceva Hermann Broch, “il romanzo che non scopre una porzione di esistenza fino ad allora ignota è immorale”. Non mi fermerei sulla parola immorale (problematica), ma sull’affermazione che il romanzo deve “scoprire”, è cioè un atto di conoscenza, come la filosofia e la scienza.

Anche qui: mi gusto il discorso, ma non ritengo utile aggiungere alcunché. Ognuno se vuole può provare a ragionare su queste affermazioni. Su un’unica questione mi azzardo a dire la mia. Non credo che i romanzi che sono costruiti sui luoghi comuni allo scopo di piacere a più persone possibile siano gli unici romanzi a tradire il ruolo conoscitivo del romanzo. Qua e là traspare anche in Kundera quello che sto per dire, ma non è analizzato, quasi cesellato, come accade per gli altri argomenti. Secondo me anche i romanzi chiusi contengono spesso poca conoscenza sull’esistenza, i romanzi che sono composti da situazione di partenza, problema, soluzione, finale, magari con più linee narrative a simulare una certa complessità, nei quali alla fine il cerchio si chiude e tutto viene reso logicamente comprensibile, tutto raggiunge un suo perché. Oppure i romanzi a tesi o di propaganda o che si pongono dei fini educativi, nei quali il cerchio, diciamo così, allargato, si chiude e tutto diventa logico, e in questa logica di tipo causa-effetto è compreso anche il lettore.

L’immagine del romanzo portatore di scoperta e di conoscenza che ho in mente io è quella suggerita dal titolo di un’opera di Heidegger: Sentieri interrotti. Non voglio rimandare a quell’opera, mi serve solo l’immagine. I boscaioli avanzano nel bosco per fare legna e in questo loro lavoro creano dei sentieri che non portano ad una meta e che pure sono sentieri utili, anzi, necessari, e percorribili. I sentieri ad un certo punto si interrompono, non raggiungono una meta, non era quello il loro scopo. Però ci sono e portano dentro nel bosco. Un romanzo costruito così, per sentieri interrotti, scardina le regole della narratologia elementare, ma mi sembra adatto a indagare e scoprire l’esistenza e a diventare utile strumento di conoscenza. Strumento diverso dalla scienza, dalla filosofia e anche dalla storia, perché dissesta anche le categorie di spazio e tempo.

Repost FB del 17 settembre 2021


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