Cinema Letteratura

L’aberrante normalità della Zona d’interesse

"La zona d'interesse" è un film diretto da Jonathan Glazer che racconta Auschwitz dal punto di vista dei carnefici anziché delle vittime. Un film che costringe gli spettatori a confrontarsi con la normalità aberrante del male umano.

di Fabrizio Coscia

Che film è «La zona d’interesse»? Innanzitutto, dimenticate il romanzo di Martin Amis da cui è tratto molto liberamente e dimenticate anche tutti gli altri film sulla Shoah. Qui il regista, Jonathan Glazer, sceglie di raccontare Auschwitz mettendosi dall’altro lato, letteralmente, concentrandosi cioè sui carnefici, non sulle vittime: quello che vediamo non è il lager, ma ciò che succede nei suoi paraggi, accanto, a ridosso, ai margini (marginale è tutto quello che ci viene mostrato, in effetti), ovvero la vita del comandante del campo Rudolf Höß e di sua moglie Hedwig che insieme ai loro cinque figli e il cane (oltre a una numerosa servitù locale) abitano in una casa e in un grande giardino in un terreno adiacente al muro del lager. Un idillio ai confini dell’inferno, insomma. Lui va a pesca con i figli, racconta loro le fiabe per farli addormentare, lei cura le aiuole, riceve le amiche. Insieme organizzano ricevimenti con rinfreschi e bagni in piscina. Dall’altra parte del muro, intanto, rigorosamente fuori scena, proviene un paesaggio sonoro attutito ma che non si interrompe mai: grida, pianti, lamenti, colpi di mitra, latrati di cani, ordini urlati, e soprattutto un rumore di fondo, continuo, incessante, un borbottio metallico che si presuppone provenga dai crematori.

È un contrappunto sonoro che costituisce un film nel film, come un ritorno del rimosso che emerge anche in alcuni dettagli visivi tra la quotidianità della “famigliola” tedesca: il fumo delle ciminiere e quello dei treni in arrivo che si scorgono ai margini superiori di certe inquadrature, i bagliori notturni dei forni che si intravedono di notte alle finestre velate dalle tende della casa del comandante. Quello che però succede, e che ci sconvolge a posteriori, è che a un certo punto del film ci abituiamo a quei rumori di fondo, a quei dettagli visivi, quasi non ce ne accorgiamo più, diventano cioè parte di quella quotidianità a cui stiamo assistendo. Ci abituiamo, insomma, all’orrore che sappiamo accadere al di là del muro, e solo dopo, ripensandoci, ce ne vergogniamo. Perché sì, tornando alla domanda iniziale, «La zona d’interesse» è certamente un film sulla Shoah che sceglie (seguendo Claude Lanzmann) di non mostrare direttamente l’Olocausto, un film realizzato con uno stile algido, documentaristico, uno sguardo entomologico dove tutto è straniante (a cominciare dalle musiche di Mica Levi, ispirate a Ligeti, di straordinaria suggestione, all’inizio e alla fine), e allo stesso tempo dove tutto è anche verosimile, familiare in modo impressionante (è stato girato ad Auschwitz, piazzando delle macchine da presa operate da remoto nella residenza degli Höß, permettendo così agli attori di muoversi liberamente, senza la presenza del regista, spesso improvvisando, mentre erano ripresi da più di dieci angolazioni contemporaneamente).

Ma è soprattutto un film su di noi, sulla rimozione del male che siamo  disposti a compiere per ottenere la nostra piccola dose di felicità, fatta di benessere, status, sicurezza, carriera, rivalsa, una felicità molto kitsch, che si regge su un baratro di colpe, omissioni, indifferenza, omertà. Da questo punto di vista il vero protagonista del film non è tanto il comandante, che incarna alla perfezione l’insondabile banalità del male, colui cioè che il male lo realizza con spietata freddezza, separando il suo ruolo di aguzzino criminale da quello piccolo-borghese di padre di famiglia benevolo e marito premuroso; ma è piuttosto la moglie (una strepitosa, indimenticabile Sandra Hüller), colei che è inamovibile, che chiude gli occhi, che non vuole sapere e saperne, che vuole nascondere il muro del campo con gli alberi del suo giardino. Con il suo cinismo, la sua disgustosa ignavia e la sua protervia, tutta concentrata a mantenere ciò che possiede, è lei che rappresenta tutti noi, o meglio il mostro che si annida in ciascuno di noi. Per questo il film – per me un grande film, e lo dico pur sapendo che non è un giudizio condiviso da tutti – risulta così respingente, così disturbante, perché costringe a specchiarci in quella stessa aberrante normalità da cui all’inizio sembrava volerci far prendere le distanze.


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