di Jenny Barbieri

Il tempo: un’idea che ha da sempre stuzzicato la mente umana, con il suo tendere incessantemente verso l’infinito e l’indeterminato; concetto estremamente astratto, tanto da spingere gli uomini di ogni epoca e luogo a provare a incanalarlo entro schemi precisi e definiti, più semplici da comprendere per la natura della nostra mente. Nascono, così, le date, i giorni, le ore, le definizioni del prima e del dopo, secondo un andamento lineare canonizzato e comprensibile per tutti.
Arriva il Novecento e con esso cadono tutte le certezze, anche quelle relative all’idea del tempo. Tra XIX e XX secolo, assistiamo alla nascita della psicoanalisi: Freud scopre l’inconscio, la parte più nascosta della nostra mente, quella in cui releghiamo i pensieri e i ricordi meno piacevoli, ma non solo. “L’inconscio è un particolare regno della psiche con impulsi di desiderio propri, con una propria forma espressiva e con propri caratteristici meccanismi psichici che non vigono altrove”: ciò che si trova in questa zona della psiche, emerge senza alcun controllo da parte nostra. Henri Bergson introduce il concetto filosofico di tempo soggettivo, che viene ad affiancarsi a quello di tempo oggettivo e universalmente valido, scardinandone la linearità. Quasi contemporaneamente, nel 1905, un giovane fisico ventiseienne, ancora poco conosciuto ma dalle capacità indubbiamente brillanti, stupisce il mondo scientifico con la pubblicazione di una teoria estremamente innovativa. Si tratta di Albert Einstein e della sua Teoria della Relatività ristretta, in base a cui la velocità dell’osservatore influenza la percezione del prima e del dopo; pertanto, lo scorrere del tempo non è più universale, ma diventa un’entità fluida.
E l’arte? E la letteratura? Di certo non possono restare a guardare, senza prendere parte al clima di intenso cambiamento che si respira in quegli anni. In ambito letterario, il disordine di un presente in cui persino la certezza dell’universalità temporale era venuta meno viene reso attraverso la creazione di nuove forme di scrittura, che rompono in maniera netta con la linearità dei romanzi scritti fino ad allora. Prendono, così, vita nuovi modi di narrare, in cui il tempo della coscienza entra prepotentemente nella storia, spesso creando un forte contrasto con il tempo oggettivo: si pensi, ad esempio, a James Joyce e a quel modus narrandi da lui “inventato” che è lo stream of consciousness, un vero e proprio inno alla relatività cronologica. Questa tecnica narrativa consiste nel riportare su carta pensieri e ricordi dei personaggi, così come compaiono nella loro mente, o, meglio, nel loro inconscio, prima di essere logicamente organizzati in frasi. Indubbiamente il flusso di coscienza trova una delle sue massime espressioni in quel mastodontico capolavoro che è l’Ulisse, tuttavia esso fu messo a punto e, in un certo senso, “collaudato” già nel 1904, anno in cui Joyce effettua la stesura del racconto intitolato Eveline.
“Stava seduta alla finestra osservando la sera che scendeva sul viale […]”
Queste sono le prime parole del racconto, quelle che introducono il personaggio della giovane protagonista, non a caso colta in un atteggiamento riflessivo. A chi non è mai capitato di soffermarsi davanti alla finestra, in solitudine, a osservare il giorno che muore? Ebbene, sappiamo che questo è uno dei momenti in cui la nostra mente può viaggiare libera, procedere per analogie e collegamenti a volte bizzarri, ripercorrere la giornata appena trascorsa o perdersi in ricordi del passato. Questo è quanto accade a Eveline: dall’osservazione della via, si passa allo studio della casa e il pensiero si sposta da qui al giorno in cui la ragazza, per amore, sta per allontanarsi definitivamente dal luogo in cui è cresciuta e dove vive tutta la sua famiglia. Tranne la madre. È la musica di un organetto a rievocare certi ricordi: eccoci, improvvisamente, trasportati indietro nel tempo, accanto a noi una Eveline più giovane di qualche anno che osserva la “pietosa vita di sua madre”, fatta di continui sacrifici quotidiani che si sono spenti in un ultimo vaneggiare privo di senso. La giovane sente dentro di sé il desiderio di dare una svolta alla propria vita, di inseguire il suo sogno d’amore, di essere diversa, meno immobile, del resto della sua famiglia: di colpo, siamo accanto a lei e al suo fidanzato Frank “in piedi tra la folla ondeggiante alla stazione di North Wall”, prossimi a imbarcarci sul vapore della sera diretto a Buenos Aires. Eveline, vittima anche lei della paralisi che investe la Dublino di Joyce, non troverà mai il coraggio di intraprendere quell’avventura. Il racconto si chiude con l’immagine della giovane, in piedi sulla banchina, lo sguardo perso, quasi depersonificato. Noi siamo lì con lei, ci sembra di vivere nel presente di un addio, ma contemporaneamente sappiamo di “spiare” un ricordo, qualcosa che non è realmente hic et nunc, ma che è avvenuto in un tempo precedente a quello della narrazione. Siamo dinnanzi all’incontro-scontro di due tipologie di tempo, oggettivo per il lettore e soggettivo per Eveline. Una novità che fa crollare tutti i nostri riferimenti, che mischia più piani spazio-temporali, che ci permette di esplorare a fondo la mente della protagonista, rendendola indimenticabile.
Rendere la relatività cronologica con le parole risulta sì difficile, ma certo non impossibile: a venirci in soccorso ci sono le svariate forme verbali in grado di creare più piani temporali sovrapponibili, o, ancora, altre parti del discorso, come, ad esempio, numerosissimi avverbi. Ma come rendere tutto questo in pittura, quindi con il solo utilizzo di prospettiva e colori?

La risposta sta in uno dei quadri più famosi del Novecento: Les Demoiselles d’Avignon. Dipinto di Picasso del 1907, viene esposto al pubblico solo nel 1916. Oggi, quest’opera è considerata la prima testimonianza della dimensione del tempo nell’arte. Picasso dipinge cinque donne, cinque ragazze in posizione frontale, le quali sfoggiano sfacciatamente le loro nudità: sembrano modelle pienamente consapevoli di essere osservate. Non è da escludere che l’artista abbia tratto ispirazione dalle donne di una casa di tolleranza frequentata in gioventù. L’innovazione maggiore riguarda proprio il modo in cui sono rappresentate le figure femminili: i loro volti e i loro corpi appaiono frammentati, come se fossero osservati contemporaneamente da più angolazioni. Nell’arte europea, fino ad allora, le figure umane erano sempre state ritratte con fattezze verosimili, anche quando, come con Munch, esse sono soggette a una deformazione utile a veicolare gli stati d’animo dell’artista. Con Les Demoiselles, invece, la simultaneità di visione comporta una scompaginazione totale dell’immagine: è proprio l’unione di questi due elementi a far sì che il concetto di tempo, e in particolare di tempo relativo, entri prepotentemente a far parte di un’opera. Non solo tempo, ma anche spazio. Le donne raffigurate riportano elementi tratti da varie tradizioni di diversa provenienza geografica: le due figure a destra, con la deformità del loro volto, sembrano rifarsi alle maschere africane tanto care a Picasso; quella a sinistra, con il viso disegnato di profilo e l’occhio frontale, non può non ricordarci lo stile egizio. La scena, nell’insieme, sembra quella di un palcoscenico teatrale: la profondità è del tutto assente, il solo elemento di arredo è una composizione di frutta, in posizione centrale sul fondo del dipinto, anch’essa partecipe alla scompaginazione dell’immagine.
Il cubismo farà del tempo nell’arte una sua peculiarità e lo rappresenterà sempre imprescindibilmente dalla sua essenza di relatività, con quella continua tensione tra oggettivo e soggettivo che è presente e viva anche in letteratura, grazie allo stream of consciousness. Entrambe queste forme d’arte ci regalano una testimonianza diretta e accurata dei cambiamenti in corso ad inizio Novecento: in loro ritroviamo e riconosciamo il clima di ricerca continua che, nei primi anni del XX secolo, ha investito ogni campo del sapere, dalla scienza alla psicologia alla filosofia, dalla medicina alla poesia. Picasso, Joyce e i loro contemporanei sono stati i pionieri di una nuova finalità narrativa, hanno messo, al centro delle loro opere, l’uomo nella sua totalità, con le sue debolezze, i suoi desideri inconsci, le sue fragilità. La relatività di tempo e spazio hanno permesso loro di farci intraprendere un viaggio mai fatto prima, un percorso che, attraverso i pensieri di Eveline, Leopold Bloom o di cinque giovani prostitute, ci conduce a conoscere meglio la nostra psyche, nel senso classico del termine, cioè non solo della mente, ma anche, quale soffio vitale, dell’anima.