Cultura Letteratura

Cimiteri

Giuseppe Marcenaro, celebre scrittore italiano, è scomparso all'età di 81 anni. Il suo saggio, "Cimiteri, storie di rimpianti e di follie", analizza l'evoluzione dei riti funebri e l'influenza sociale dei cimiteri come solo Marcenaro sapeva fare. Altri autori, come Gian Piero Piretto e Giulia Depentor, esplorano il significato dei funerali e dei luoghi di sepoltura nella società contemporanea.

di Alessia Dulbecco Bogani

Giuseppe Marcenaro, tra i più apprezzati e colti scrittori italiani a cavallo tra i millenni, ci ha lasciati ieri all’età di 81 anni

Nell’introduzione a Cimiteri, storie di rimpianti e di follie, Giuseppe Marcenaro scrive che «il camposanto è il luogo più inverosimile inventato dall’uomo». Se i riti funebri rappresentano una costante nelle società umane, in qualsiasi epoca e latitudine, il cimitero è a tutti gli effetti un’invenzione. Fino al 1700 la sepoltura avveniva in luoghi frequentati dai vivi, come ad esempio dentro le chiese o nel terreno circostante. È stato l’editto di Saint Cloud, voluto da Napoleone nel 1804, a far sorgere un luogo preposto all’inumazione. L’esigenza era dettata in primis da motivi di salute pubblica: le tombe collocate sotto i pavimenti delle chiese venivano aperte con frequenza per potervi calare all’interno i cadaveri di chi era appena deceduto e ciò obbligava le persone a respirarne i miasmi. Le esumazioni, eseguite costantemente nel tentativo di creare nuovo spazio per accogliere le salme, unite alle rudimentali pratiche di sepoltura rischiavano di generare importanti problemi di carattere sanitario come la contaminazione delle falde acquifere e la diffusione di epidemie. L’editto stabilisce non solo la creazione di uno spazio apposito, separato da quello dei vivi tramite cancelli e mura di cinta, ma regolamenta anche le modalità con cui eseguire le tumulazioni. Come ricorda Philippe Ariès, che in Storia della morte in Occidente si è occupato di esplorare l’evoluzione dell’attitudine verso la morte, intorno al XIX secolo essa cessa di essere una faccenda familiare per diventare una questione sociale.

Il luogo preposto ad accogliere i defunti, ben visibile e differenziato da quello dei vivi, contribuisce a rimuovere la morte da quell’orizzonte di “pensabilità” così presente nei secoli precedenti. In passato, infatti, la morte era strettamente connessa alla vita: le persone morivano in casa ed erano i familiari e la comunità, ciascuno con ruoli e compiti specifici, a occuparsi della salma. Il lutto era un’esperienza comune da cui nessuno si sottraeva; il gruppo, inoltre, ne favoriva l’elaborazione.

Per molto tempo i cimiteri sono stati luoghi sacri e solenni, la cui frequentazione era intrinsecamente correlata a eventi luttuosi in cui ci si augurava di incappare di rado. Tuttavia, funerali e cimiteri hanno molto da raccontare sulla società e sulla politica di un paese. In un recente saggio pubblicato da Cortina Editore, Gian Piero Piretto si è occupato di analizzare la complessa macchina dei riti funebri in uno stato come la Russia, prima e dopo la dittatura. Secondo l’autore, i funerali e la loro narrazione come rito collettivo rappresentano uno strumento di potere funzionale sia alle democrazie che ai regimi totalitari. Tutte le esequie, da quelle di personalità politiche di spicco come Lenin e Stalin a quelli di artisti del calibro di Esenin e Majakovskij, fino alle morti più recenti avvenute in un contesto apparentemente democratico – sono usati per promuovere l’ideologia statale distorcendo la narrazione per consolidare il governo del leader.

«La distanza tra vivo e morto, separati dalla cortina della lapide o da un metro di terra, è una distanza siderale» e ciò finisce sempre per portare chi resta a dire un sacco di «sciocchezze senza eco.»

D’altronde, che la materia – intesa come corpi, oggetti e immagini – costituisca un elemento imprescindibile per fare i conti con ciò che la morte produce è risaputo. A questo tema  le docenti Alessandra Brivio e Claudia Mattalucci hanno dedicato un testo in cui, grazie a molteplici contributi volti ad indagare le diverse pratiche funerarie, dalle Ande al Ghana passando per la ritualità imposta dal Covid-19, osservano come il rapporto tra morte e oggetti si estenda oltre il rito stesso «perché riguarda la continuità o la discontinuità dei legami tra i vivi e i morti».

Da quando la morte ha cominciato a entrare nel discorso dei vivi, non solo dei dolenti – prima grazie ai Death studies poi per mezzo di coloro che, operando nel settore funerario, hanno condiviso esperienze e riflessioni sul proprio lavoro – i cimiteri hanno iniziato ad aprirsi alle comunità. Molte guide turistiche li inseriscono all’interno dei loro tour guidati; nel frattempo, di moltiplicano le rassegne dedicate a esplorare il confine del fine-vita con un approccio transdisciplinare capace di intrecciare musica, immagini, riflessioni filosofiche e religiose.

Alle persone che non temono di varcarli, i cimiteri sanno rivelare storie e aprire uno spazio in cui memoria collettiva e interiorità personale si fondono. Se è vero, come ricorda Marcenaro nel volume già citato, che «la distanza tra vivo e morto, separati dalla cortina della lapide o da un metro di terra, è una distanza siderale» e che ciò finisce sempre per portare chi resta a dire un sacco di «sciocchezze senza eco» a chi non c’è più, è altrettanto vero che possiamo metterci in ascolto delle storie che quegli spazi evocano. È proprio quello che ha fatto lo studioso, raccontando del Cimitero delle 366 fosse a Napoli e di quello di Père Lachaise a Parigi, ma anche del loculo n.563 in cui per qualche anno riposarono le spoglie del filosofo Walter Benjamin, morto suicida nel settembre del 1940 a Port Bou, in Spagna.

Se nei primi anni Duemila mettersi sulle tracce delle storie che i cimiteri avevano da raccontare era qualcosa di inusuale, oggi varcare un camposanto per ammirarne le statue, leggere gli epitaffi o scoprire qualcosa di più su chi vi risiede non è poi così raro. Giulia Depentor è una scrittrice che nel 2020, in piena pandemia, ha deciso di creare un podcast per raccontare il fascino che da sempre nutre per questi luoghi. Nell’ottobre del 2023 Camposanto si è trasformato anche in un libro, Immemòriam, in cui ha raccontato i luoghi che più l’hanno colpita. Alcuni sono intimi e personali, come la tomba Brion, il complesso funebre commissionato dalla vedova del fondatore della Brionvega, azienda di prodotti elettronici famosissima nel dopoguerra, all’architetto Carlo Scarpa sul finire degli anni Sessanta, altri evocano ricordi dolorosi, come la morte dei calciatori del Grande Torino a Superga o le vittime dell’incidente del Vajont. Come ricorda l’autrice, ogni cimitero costituisce un luogo a sé; tuttavia, ciascuno di noi può scorgere dei rimandi a quelli visitati in precedenza, finendo per comporre un atlante molto personale in cui le storie narrate si intrecciano generando legami con la vita e le esperienze di chi lo attraversa. 

Scriveva Marcenaro che i cimiteri sono «affari che riguardano sempre e solo chi non vi è ancora andato a finire». Credo però non sia esattamente così: essi sono prima di tutto spazi di relazione, luoghi che riguardano i vivi e i morti in egual misura, in cui le tracce di chi più non è sopravvivono attraverso la cura e l’ascolto di chi resta.


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