di Tim Lewis (traduzione di Vincent Baker)

La squadra brasiliana che giunse in Spagna per la Coppa del Mondo del 1982 fu il Vendicatori Uniti delle squadre di calcio: verosimilmente, il più grande assemblaggio di talenti individuali che avesse mai reso grazia a un campo da torneo. Quando giocò contro l’Italia, si trattò di uno scontro di stili che diede vita alla più grande partita della storia della Coppa del Mondo: audacia e bizzarria abbinate a cautela e astuzia. Il calcio non sarebbe mai più stato lo stesso – e fu una partita che cambiò la vita anche a molti di noi che la guardammo.
Un aquilone fluttua in modo irregolare nell’aria cocente e densa. Il suo corpo è verde, con una treccia di fiocchi gialli trascinata dietro, e mentre oscilla fendendo il cielo cobalto, oltre una sporadica nuvola, richiama alla mente la bandiera brasiliana, ciò che esattamente intende evocare. Trenta metri al di sotto dell’aquilone si erge la Seleção – letteralmente “la Selezione”: la nazionale del Brasile, i calciatori prescelti da Dio. Si sono soltanto mossi dallo spogliatoio per oltrepassare il bordocampo che già il sudore sgorga ovunque sul pettorale delle loro maglie dorate. Il mercurio, questo pomeriggio, si è gonfiato fino alla mezzana oltre i trenta gradi a Barcellona e all’interno dell’Estadi de Sarrià dell’Espanyol, destinato a 44.000 spettatori, almeno 50.000 si sono assiepati, facendosi aria con il programma delle partite per evitare di perdere i sensi. I brasiliani sono allineati per gli inni, ma si sente un traballante, scombinato ghirigoro, come se un arrangiamento preordinato rappresentasse un imperdonabile asservimento dell’identità individuale. A un’estremità c’è Falcão, occhi azzurri e riccioli biondi, dall’aspetto allo stesso tempo giovane e vecchio, come un personaggio di Charles Schulz. È un estrangeiro o “straniero” – uno dei due soli giocatori della squadra che si guadagna da vivere fuori dal Brasile.

Alla Roma, in Italia, è il calciatore più pagato del mondo, ma ha trovato posto in squadra solo a causa della squalifica di Toninho Cerezo per la prima partita dei mondiali, rendendosi poi insostituibile. Accanto a lui c’è il “Galletto”, Zico. È cresciuto giocando a futsal, il calcio a cinque indoor locale in cui la pesante palla schizza ferocemente da tutte le parti, e la sua visione e abilità sono impareggiabili da chiunque nella Coppa del Mondo. Chiunque dai tempi di Pelé, a dire il vero. Éder, l’ala, è il testimonial di uno shampoo fatto persona. Sul campo, o sta fermo o passeggia, tranne quando c’è da battere un calcio di punizione e quando la sua rincorsa rivaleggia quella di Bob Willis. Cerezo, ci informa il telecronista John Motson, è il figlio adottivo di un clown del circo, “ma la somiglianza finisce qui: è considerato uno dei giocatori più talentuosi del Brasile”. A chiudere la linea c’è il capitano Sócrates, conosciuto a casa come O Doutor, “il Dottore”, un uomo che un giorno finirà per essere il miglior giocatore di sempre del Garforth Town. Nonostante la sua reale formazione medica, è stato uomo da due pacchetti al giorno fin da tredicenne, oltre ad avere grande passione per il bicchiere. (Sarebbe morto nel 2011, all’età di 57 anni, per uno shock settico dopo aver mangiato un filetto alla Stroganov. Ognuno ne tragga le sue conclusioni). Ha piedi piccoli e gambe affusolate, e i suoi scintillanti pantaloncini gli aderiscono come mutandine sexy.
Per il Brasile i birilli da saltare questo pomeriggio, la squadra sparring partner, sono l’Italia. Gli italiani indossano splendenti giacche Le Coq Sportif bianche a bordi blu e i loro allenatori li osservano in raffinati completi gessati e occhiali da sole da aviatore. I giocatori sono un affascinante manipolo dalla carnagione scura, eppure piuttosto indistinguibili rispetto al mix brasiliano di lungagnoni e bassi, capelloni e stempiati, bianchi e neri. Solo due sono immediatamente riconoscibili: la vecchia quercia Dino Zoff, l’uomo tra i pali dell’Italia dall’imbattuta campagna di Giulio Cesare nelle Isole Britanniche del 55 a.C.; e il numero 20 dalle inconfondibili spalle cadenti, Paolo Rossi, il quale è un furetto, gli occhi che gli saettano come a un pessimo attore nel ruolo di un drogato. Rossi è tornato a giocare a calcio da appena due mesi, dopo una squalifica di due anni per il calcio-scommesse, e finora nel torneo è apparso estremamente arrugginito. Mentre Sócrates e Zoff si scambiano i gagliardetti, divisi dall’arbitro israeliano Abraham Klein, nessuno ha bisogno che gli venga ricordato per cosa si gioca: se una delle due squadre vince, avrà posto in semifinale contro la Polonia; se è un pareggio, il Brasile va avanti grazie alla differenza reti. Finiti i convenevoli, Klein spedisce i suoi guardalinee, Chan Tam Sun da Hong Kong e Bogdan Dočev dalla Bulgaria, a sgombrare il campo dai detriti: stelle filanti, bengala e palloncini vengono bellamente portati fuori dal perimetro.

Finalmente alle 17:15 del 5 luglio 1982, Serginho, goffo attaccante brasiliano, tocca la palla per Zico e la più grande partita della storia della Coppa del Mondo ha inizio. Come avrebbe detto Gordie Lachance in “Stand By Me”: niente è così reale, vitale e visceralmente essenziale come le grandi esperienze formative di quando si è bambini. Non ero autistico ma, come per molti ragazzini, doveva trattarsi di una classificazione al limite. Tutt’oggi potrei prendere in mano Donkey Kong JR sul Nintendo portatile e, nonostante i miei riflessi appannati, potrei completarlo grazie alla sola memoria muscolare. Ricordo ancora a memoria i numeri di telefono di una manciata di amici delle elementari. E la Coppa del Mondo 1982 non sembra certo essersi svolta ieri, forse il mese scorso, non di certo 32 anni fa. La Coppa del Mondo di quest’estate in Brasile, va da sé, sarà un obbligo, ma mi domando per quanto le partite e i giocatori rimarranno nella memoria. Questo dice qualcosa su di me e qualcosa sul torneo. La deriva della globalizzazione fa sì che le stelle del 2014 siano a noi per lo più già note, e la preminenza del calcio dei club e la Champions League fanno spesso percepire la Coppa del Mondo come un’indesiderata posticipazione delle vacanze estive di un giocatore. Il calcio è diventato una bestia commerciale famelica, e una teoretica impresa corinzia come la Coppa del Mondo ha dovuto adattarsi a questa realtà. Tant’è che lo stadio Itaquerão di São Paulo, che ospiterà la gara d’apertura il 12 giugno, può essere descritto nel New Yorker dall’uomo che l’ha costruito come “il migliore, il più grande centro commerciale del mondo, con un campo da calcio nel mezzo”. Nike stima di smerciare più di un milione di maglie dell’Inghilterra.

Nel 1982, se si voleva acquistare la replica di una maglia, la cosa migliore era recarsi da Soccer Scene a Carnaby Street. Avevo sette anni e tre quarti quando cominciarono i mondiali, così potei dedicare a loro tutta la mia personalità ossessiva. A differenza del ‘78 e dell’‘86, si giocò in Europa, quindi tutte le partite si svolsero in orari conviviali. I miei genitori si stavano imbarcando in un confusionario divorzio, che non lasciò nessuno a rimproverarmi quando mi mettevo a occhi sgranati di fronte alla televisione o a insistere che approfittassi dell’estate che si rumoreggiava stesse accadendo là fuori. Quando non si giocavano partite, c’erano gli album Panini da riempire, annuari del calcio da consultare, tutto mentre “This Time (We’ll Get It Right)” suonava a rotazione infinita. Il calcio non sarà mai più così esotico: la rete rettangolare della porta piantata come una stravagante tenda; il Tango España dell’Adidas, l’ultimo pallone in cuoio della Coppa del Mondo, molto meno monotono di quei macigni di Mitre Ultra a cui eravamo abituati. Ma, soprattutto, i giocatori che mi ossessionavano erano in particolare i brasiliani. Nel 1986, molti di loro si sarebbero avventurati a giocare in Europa – Zico, Sócrates, Júnior su tutti – e avremmo imparato quanto alcuni fossero inadeguati e pigri ed esasperanti. Quattro anni prima però, conservavano quello status mitologico di eroi popolari. Li vedemmo alla Coppa del Mondo e poi poof! Scomparvero, e tutto ciò che ne rimase fu un filmato VHS sgranato. Quel poco che i loro avversari sapevano di loro doveva essere paralizzante. Nel maggio del 1981, la Seleção batté l’Inghilterra, la Francia e la Germania Ovest fuori casa, il tutto in meno di una settimana. Nella Coppa Intercontinentale a dicembre, sei mesi prima della Coppa del Mondo, il Liverpool, campione d’Europa, giocò con gli omologhi sudamericani, i brasiliani del Flamengo.
Quel Liverpool di Souness, Hansen e Dalglish era carogna, perfido e implacabile, e aveva vinto la Coppa dei Campioni tre volte negli ultimi cinque anni. Davanti a 62.000 spettatori allo Stadio Nazionale di Tokyo, tuttavia, fu condotto a morte da migliaia di minuscoli graffi. Souness corse a destra e a manca sull’erba riarsa cercando di prendere a calci Zico, regista del Flamengo, ma non riuscì ad avvicinarsi. Dopo 41 minuti, il Liverpool era sotto 3-0, il tutto orchestrato da Zico, e così andò a finire. Alla Coppa del Mondo del 1982, la concorrenza nel Brasile dovette far fronte alla desolante prospettiva che solo tre della compagine del Flamengo fossero considerati degni di entrare in squadra. Contro un’Unione Sovietica confusionaria, la Seleção iniziò steccando, andando sotto 1-0 dopo una papera del portiere. Ma, a un quarto d’ora dalla fine, Sócrates eluse due difensori, facendo partire un bolide da 20 metri; poi, 10 minuti dopo, Éder segnò un gol ancora più bello, palleggiando con un piede prima di calciare la palla nell’angolino con l’altro. Quattro giorni dopo, il Brasile giocò contro la Scozia, affrontando ancora una volta il trio del Liverpool: Souness, Hansen e Dalglish. Anche in questo caso il Brasile andò sotto di una rete, ma stavolta rispose con quattro segnature: il calcio di punizione di Zico seguito con lo sguardo da tutti, immobili sul campo, incluso il portiere della Scozia Alan Rough, fu la ciliegina. Il Brasile ne fece quattro anche alla Nuova Zelanda, e segnò tre volte contro l’Argentina campione del mondo, con un Maradona così frustrato da essere espulso per un violento pestone. Questa era, senza dubbio, la squadra brasiliana più inarrestabile dal 1970, e molto probabilmente i suoi giocatori erano ancora più incontenibili.

Di norma, i telecronisti notavano come rimanessero indifferenti nel concedere gol, poiché confidavano sempre di segnarne uno in più. In effetti, giocavano come se fossero ignari dell’esistenza di un antagonista: non variavano mai le loro tattiche; semplicemente si riversavano in avanti come onde inarginabili; la loro lampante convinzione morale, intellettuale ed estetica rendeva quasi insignificante difendere il punteggio. Al contrario, l’Italia era l’antitesi del Brasile. Gli azzurri non avevano impressionato nessuno in Spagna: nella fase d’apertura a gironi, pareggiarono le partite contro Polonia, Perù e Camerun, e avanzarono solo perché avevano segnato un gol in più di quest’ultimo. Nessuno, con molto senno, dava loro una speranza. La squadra brasiliana del 1982 aveva dei difetti, ed essi erano di portata lampante anche per un bambino di sette anni e tre quarti. A partire dalle retrovie, il loro portiere, Waldir Peres, era d’affidabilità imprevedibile. Ricordava l’attore Robert Duvall e si comportava come qualcuno che passasse di lì per caso, come se tutti i giocatori avessero accettato di fare il portiere volante, ma nessuno stesse rispettando in quel momento il proprio turno. I terzini, Leandro sulla destra e Júnior sulla sinistra, eccellevano nelle sortite in avanti, ma vedevano la fase difensiva con l’entusiasmo di un adolescente costretto a riordinare la stanza. Questo lasciava spesso il centro arretrato in inferiorità numerica. Davanti, Serginho era un oggetto contundente in una squadra di bisturi. A nessuno piaceva troppo giocare a destra, pertanto nessuno ci stava, e tutta la squadra aveva la tendenza a iniziare le partite inebetita.
Tutte queste debolezze vengono evidenziate nel primo tempo della partita con l’Italia. Il Brasile – come contro l’URSS e la Scozia – concede il primo gol. Arriva dopo cinque minuti: Bruno Conti, tornante destro dell’Italia, scorrazza per il campo e nessuno pensa d’affrontarlo; alla fine passa ad Antonio Cabrini, che ha tutto il tempo che desidera per crossare sul palo lontano, dove Rossi indirizza un colpo di testa alle spalle di Peres. Sembra troppo facile; e lo è. Sul fronte opposto, la migliore possibilità capita, sfortunatamente, a Serginho. Dopo una serie di rimpalli fortunosi, si ritrova davanti alla porta, a 9 metri di distanza, con solo Zoff da battere. Strozza il colpo in modo osceno, mancando di nuovo un gol fatto. Richiama alla mente l’analisi impietosa di João Saldanha, ex allenatore della Seleção, dopo che Serginho fu sostituito contro la Nuova Zelanda: “Ora la palla è di nuovo rotonda.”

Il Brasile viene salvato, come sempre, dal suo centrocampo. C’è una certa disputa sulla formazione che giocò la Coppa del Mondo del 1982: Jonathan Wilson in “Inverting the Pyramid”, il suo autorevole libro sulle tattiche del calcio, lo descrive come un 4-2-2-2; nel Guardian, Rob Smyth lo definisce un 2-7-1. In entrambi i casi, il sistema era condotto da due Méia-Armador, o registi di contenimento: Cerezo e Falcão. A sua volta si proponeva una coppia di Meia-Atacante, centrocampisti d’attacco: Sócrates e Zico. A Éder era permesso girovagare, giocando come falso nove, un centravanti arretrato per lo più a sinistra, dietro Serginho. Quando funzionava, fece notare una volta Zico, i giocatori si muovevano perpetuamente in circolo, non assumendo mai una posizione fissa. Per Sócrates, “confondeva gli avversari” e aveva “un’insolita forza strutturale”.
Allo stesso tempo in cui l’Inghilterra era impegnata nella ricerca spirituale della possibilità o meno di includere un giocatore di prestigio – Glenn Hoddle – il Brasile accoglieva cinque fantasisti. Dopo 12 minuti all’Estadi de Sarrià, un lampo. Sócrates raccoglie la palla nella sua metà campo e si riversa in avanti. La passa a Zico, che la fa filtrare attraverso la difesa italiana con l’esterno dello scarponcino. Sócrates mette il turbo e fulmina Zoff sul primo palo. Un uomo noto per le sue idee di sinistra celebra con il pugno alzato, il suo marchio di fabbrica in omaggio alle Black Panthers. Uno pari, l’ordine è ripristinato. La risposta dell’Italia all’insondabile formazione d’attacco del Brasile è il Gioco all’Italiana (in italiano nell’originale, ndr), gioco a zona evoluzione della sua più brutale filosofia del Catenaccio (in italiano nell’originale, ndr). I difensori proteggono la loro zona con ruvidità, e Gaetano Scirea, il libero, spazia dietro di loro. Zico, in particolare, è indicato per una particolare attenzione; la sua maglietta viene letteralmente strappata nel primo tempo dalla marcatura a uomo di Claudio Gentile, che perlomeno avrebbe dovuto invitarlo prima al cinema o a cena. I brasiliani sono avvezzi a tempo e spazio, ma per la prima volta nel torneo, gli italiani glieli negano. I fantasisti si innervosiscono e gli errori si sprecano. Dopo 25 minuti, Cerezo sbatacchia un pigro passaggio di fronte alla sua area, Rossi si infila dentro e dal limite fa passare una bordata fra mezzo le mani di Peres: 2-1. Ed è così che si va avanti fino all’intervallo: non c’è dubbio, il Brasile sta giochicchiando.
La squadra del Brasile del 1982 fu una compagine affiatata. Secondo l’illuminante libro di Fernando Duarte, “Shocking Brazil”, i giocatori trascorsero quattro mesi insieme prima della Coppa del Mondo, preparandosi con grande intensità per rendere il loro stile spontaneo. Sócrates rinunciò persino ad alcool e sigarette, così da essere in condizioni fisiche perfette. Ma non si trattava solo di abnegazione. Le squadre brasiliane erano famose per la loro rigida fede nel concentração, o “concentrazione”, che si basava sulla convinzione per nulla scientifica che gli uomini brasiliani non potessero fare sesso audace e selvaggio prima degli impegni sportivi importanti. L’unica soluzione, quindi, era un isolamento lontano da mogli e fidanzate, e magari anche dagli aspirapolvere. Il concentração, tuttavia, non venne applicato nella Coppa del Mondo 1982 in Spagna, e la squadra visse un rilassato clima familiare. La nuova atmosfera fu, in gran parte, una risposta all’esperienza priva di gioia – per giocatori e tifosi – della Coppa del Mondo 1978. Dal 1964, il Brasile era governato da una dittatura militare la cui sconsiderata mala gestione avrebbe garantito al paese di rimanere una nazione del terzo mondo fino al nuovo secolo.

Originariamente, la giunta ebbe poco interesse per il calcio, ma la popolarità della meravigliosa squadra del Brasile del 1970 si rivelò un irresistibile carro su cui salire. Il coinvolgimento del regime divenne ancora più vizioso quando Cláudio Coutinho, un capitano dell’esercito, fu nominato allenatore della Seleção per il 1978. Coutinho, che non fu mai un giocatore di qualunque serio livello, era convinto che forma atletica ottenuta duramente e lavoro di squadra surclassassero sempre le abilità individuali, e si proponeva che le squadre brasiliane emulassero il calcio totale dei Paesi Bassi, piuttosto che fare affidamento sugli attributi della propria tradizione. Per il ‘78, non portò Falcão e Sócrates; lasciò fuori Zico. “Il dribbling, la nostra specialità, è una perdita di tempo, e la prova della nostra debolezza”, disse una volta. Il destino di Coutinho non fu segnato dai risultati, che furono decenti, ma dal rifiuto pressoché universale di ciò che egli rappresentava: vincere senza spettacolo. Il suo sostituto nel 1980, Telê Santana, fu tutto ciò che egli non era.
Come giocatore, Santana era stato un’ala destra fluidificante e le squadre che aveva allenato giocavano un calcio aperto e vivace. Il suo mandato fu tanto romantico quanto pragmatico: riportare il Brasile alla sua maestosità, ripristinare il jogo bonito, o bel gioco. “Ecco perché tutti amano così tanto il 1982, perché è un ritorno alla tradizione che i militari prima cercarono di rubare e poi tentarono di deformare”, dice David Goldblatt, un sociologo che ha finito di scrivere “Futebol Nation: a Footballing History of Brazil”.
Santana scelse Sócrates come suo capitano per uno scopo: non era solo saggio e considerato in campo, ma lontano dal calcio era un attivista sociale che leggeva Machiavelli e Thomas Hobbes, ed era un dichiarato sostenitore della democrazia. Che gli fosse permesso di entrare in squadra era rivelatore; il fatto che fosse il suo leader ancora di più. “I militari stanno perdendo forza, vogliono proseguire,” spiega Goldblatt. “Verso il 1980, l’economia è in picchiata, l’iperinflazione è all’orizzonte e sono a corto di espedienti.
Non trasformeranno il Brasile nella grande superpotenza continentale che immaginano di poter fare. È tempo di procedere e Coutinho non ha funzionato, e non sembra una buona idea riconfermarlo. Ecco perché il calcio acquista quel po’ di autonomia dai militari nei primi anni Ottanta”. Per i brasiliani a casa, che sopportavano l’ultimo periodo di governo militare, la squadra del 1982 rappresentava l’evasione. Il Congresso del paese infine elesse un presidente civile nel 1985 – con l’inflazione al 235 per cento – anche se i brasiliani avrebbero dovuto aspettare fino al 1989 per una votazione propriamente democratica. Guardare Zico, Sócrates e gli altri giocare come se non se ne curassero era quanto bastava a dimenticare tutto ciò che c’era di sbagliato nel paese, dice Fernando Duarte, che nel 1982 era un bambino di nove anni che viveva a Rio de Janeiro: “Il calcio, e lo sport in generale, è sempre un modo per distaccarsi dalla realtà. E in quel periodo, la gente era alla ricerca di una qualche felicità”. Duarte ricorda strade decorate dei colori del Brasile, con premi assegnati ai festoni più originali. “Un sacco di gente non aveva i soldi per le decorazioni, pertanto ci furono delle collette, in pratica passando un cestino di casa in casa, così si sarebbe potuto far festa e seguirlo assieme.”

All’Estadi de Sarrià, i giocatori covavano qualche sospetto che quella fosse più che una partita. Nell’intervallo nello spogliatoio, Cerezo – colpevole per il secondo gol italiano – singhiozzava istericamente. Sócrates fece del suo meglio per consolarlo e ispirare il resto della squadra. Avevano 45 minuti per salvare la loro Coppa del Mondo.
Il sole si sta inabissando dietro gli spalti in cemento, la temperatura è calata di un niente, e il Brasile inizia brillantemente il secondo tempo. Falcão calcia largo dal vertice dell’area e il terzino destro Leandro tenta la fortuna da lunga distanza. Cerezo corre in giro come un demente, come deciso a espiare da solo il suo errore. Ma gli italiani restano saldi e si rendono pericolosi in contropiede. Rossi cade in area e i suoi occhi da cerbiatto si rivolgono ad Abraham Klein per supplicare un rigore. Poi, dopo un’ora, lo stesso giocatore si ritrova uno-contro-uno di fronte a Peres, ma il piatto destro è largo. Gentile ingabbia Zico così efficacemente da far dimenticare che sia in campo. La presenza di Zico è ancora, in ogni caso, un dato di fatto e dopo 68 minuti crea lo spazio in cui Falcão si fionda. Falcão finta a destra e poi sposta la palla dall’altra parte, e spara un sinistro alle spalle di Zoff dal limite dell’area. È una rete speciale, ma la celebrazione lo è ancora di più, mentre si volta e corre diritto verso la telecamera, la faccia come un peperone, le vene che gli pulsano come a un culturista da competizione. (In “Shocking Brazil”, Falcão rivela di aver avuto un pezzo di gomma da masticare incastrato nella trachea: quella che abbiamo sempre interpretato come l’espressione più atavica dell’estasi umana è in realtà quella di un uomo con un disperato bisogno della manovra di Heimlich.)

Il Brasile deve solo tenere duro per qualificarsi alle semifinali e Santana sostituisce immediatamente Serginho con un centrocampista, Paulo Isidoro. Ma il messaggio non viene recepito e i giocatori continuano a spingersi in avanti. Zico calcia alto e largo, ed Éder è respinto dall’estremo difensore italiano. Quindi, dopo 74 minuti, Peres concede maldestramente un angolo; il Brasile presidia l’area con tutti gli 11 giocatori, per tenere al sicuro il pareggio, ma non fanno che sortire l’effetto contrario. Quando Marco Tardelli calcia dal limite dell’area, Júnior sta tenendo in gioco due attaccanti italiani e per Paolo Rossi è un facile tap-in. È la sua tripletta, e l’Italia è in vantaggio per la terza volta. L’ultimo quarto d’ora è frenesia e disperazione per il Brasile. Éder esplode un’assurda punizione da 30 metri. Poi, all’86’, l’elegante regista italiano Giancarlo Antognoni segna per gli azzurri ma viene – ingiustamente, si scopre – fermato per fuorigioco dal guardalinee bulgaro.
Con un minuto sull’orologio, Éder crossa e il colpo di testa di Oscar è soffocato dall’agile balzo del quarantenne Zoff. I brasiliani protestano, ma in modo vano e poco convincente; perdere è così inaspettato che non hanno alcuna esperienza nel nascondere la loro disperazione. Nelle cinque fasi del dolore del Modello di Kübler-Ross, il Brasile è attualmente al numero tre: la negoziazione. Sono passati attraverso la negazione e la rabbia – depressione e accettazione li stanno ancora aspettando – e possono solo braccare l’arbitro, implorandolo per una seconda possibilità.
Al fischio finale, c’è sia il putiferio più chiassoso che si sia mai sentito che il più scioccante ed epico dei silenzi. I brasiliani escono rapidamente dal campo, le maglie a penzoloni sulle spalle, alcuni baciano le croci appese al collo. Quasi inosservato, quell’aquilone verde e giallo è precipitato al suolo. Si agita un paio di volte come un pesce sul ponte di una barca, prima di adagiarsi fiaccamente sull’erba. Non esagero, dicendo che la sconfitta del Brasile per mano dell’Italia fu l’evento peggiore e più scombussolante dei miei sette anni in questo mondo. La separazione dei miei genitori, al confronto, fu a malapena un contrattempo. Il mio sentimento più forte – e lo ricordo ancora intensamente – fu di una profonda ingiustizia. Non aveva senso: come si può essere il migliore con tanta evidenza e perdere lo stesso? Poteva la vita essere davvero tanto crudele? Parlando con la gente per questo articolo, le conversazioni spesso si abbassano al livello di confessioni tra alcolisti anonimi. I brasiliani sanno che gli estranei condividono il loro sdegno, ma si può dire che li percepiscono come gazze intente a rubare il loro lutto personale. “Non sei tu ad aver perso la Coppa del Mondo quando avevi nove anni!” mi dice Duarte, bonariamente, ma con ardore. “Era la prima volta che vedevo mio padre piangere, pertanto era una sensazione strana. Non l’ho mai superata.”

Non molto tempo fa, Duarte ha incontrato Paolo Rossi, che in Brasile chiamano ancora “Il Boia”: “Mi ci è voluto davvero un po’ per sentirmi a mio agio con il ragazzo. Non lo supererò mai, perché è uno di quei momenti che definiscono la tua vita. Vorresti solo che riaccadesse così da avere la possibilità di cambiare la storia”. Quando l’allenatore Telê Santana morì nel 2006, Sócrates scrisse un tributo che descriveva la scena nello spogliatoio brasiliano dopo la partita. Si immagini, in sostanza, la serie delle Pitture nere di Goya: lacrime, rabbia, incredulità. Santana, tuttavia, rimaneva tranquillo e composto. Quando alla fine parlò, disse ai suoi giocatori che era orgoglioso di loro, avevano davvero rappresentato il loro paese, ma non era nel loro destino vincere quella Coppa del Mondo. “Abbiamo fatto del nostro meglio,” concluse. “Tutto il mondo è rimasto incantato da voi. Siate consapevoli di questo”. Santana aveva ragione: la storia fu cortese con i brasiliani del 1982. Quando Carlos Verri, meglio conosciuto come Dunga, capitano di un’austera spedizione del Brasile che di fatto sollevò la Coppa del Mondo del 1994, ebbe il coraggio di chiamarli – molto prima che José Mourinho gli rubasse la battuta – “specialisti del perdere”, fu ampiamente screditato. Ancora oggi, nell’immaginario, la squadra dell’82 è dietro soltanto agli eroi di Pelé del 1970.
Brasile-Italia, tuttavia, rappresentò un punto di svolta per questo sport. Sia Zico che Sócrates descrissero il 5 luglio 1982 come “il giorno in cui morì il calcio”. Nella sua autobiografia – ancora inedita in inglese e in italiano – Sócrates spiega: “La sconfitta della nazionale a Barcellona fu il colpo di grazia per lo stile di gioco brasiliano. Da quel momento in poi l’enfasi passò a focalizzarsi sui risultati. “Il lato affaristico del gioco è cresciuto in modo spaventosamente rapido e il denaro è stato canalizzato verso chi vince, anche fossero vincitori di scarsa qualità. Il calcio brasiliano non sarebbe stato mai più lo stesso. Sebbene sia spesso inconscio, oggi cerchiamo di copiare il pragmatismo europeo. Con questo, il nostro gioco è diventato più razionale e tatticamente più rigido e ha perso parte della sua identità”. La squadra brasiliana del 1982 si sfaldò, poi si disintegrò. Nel 1983, Zico lasciò il Flamengo per unirsi all’Udinese in Italia. L’anno successivo, Sócrates promise a una folla di un milione e mezzo di persone, in una manifestazione politica in Brasile, che sarebbe rimasto nel paese se fosse stata approvata una legge che garantisse elezioni presidenziali democratiche.
Così non fu, e se ne andò a malincuore alla Fiorentina. Cerezo si unì a Falcão alla Roma. Éder rimase in Brasile, ma divenne noto per il temperamento irascibile e fu sospeso dalla nazionale per aver spintonato un raccattapalle. Santana tornò come allenatore della squadra per i mondiali del 1986 ma, a causa di infortuni o perdite di forma, l’unico fantasista a iniziare il torneo fu Sócrates. Zico fu rimesso in sesto da un lungo infortunio al ginocchio per giocare nel classico quarto di finale contro la Francia, ma sbagliò un rigore nel secondo tempo e il Brasile fu infine eliminato ai rigori. Il football poteva essere morto quel pomeriggio di luglio, ma riguardando oggi la partita del 1982, è chiaro che la cause della morte furono naturali e non si trattò di omicidio. L’Italia, mi addolora scriverlo, vinse onestamente: ce la misero tutta, combatterono e sfruttarono senza pietà gli errori brasiliani.

Tre decenni dopo, c’è molto del quadro a risultare anacronistico quanto i tabelloni che pubblicizzano calcolatrici tascabili. A ogni rimessa dal fondo, Zoff chiama Gentile per rinviarla. La differenza più evidente con il calcio moderno, tuttavia, è la velocità del gioco. I centrocampisti di oggi, in genere, in 90 minuti coprono 12 chilometri; allora, i giocatori ne correvano all’incirca 5. Quel pomeriggio a Barcellona non fu una mera questione di atletismo che travolge la creatività, ma la consapevolezza che da lì in poi le migliori squadre avrebbero combinato entrambi. Il Brasile ’82 mi ha fatto pensare alla visione di “Anchorman”: c’era qualcosa di vagamente assurdo nella spavalderia di quei giocatori perfino all’epoca. Dall’esuberante barba di Sócrates e i suoi vizi fuori campo, alla comica rincorsa per il calcio di punizione di Éder, allo sventurato Peres in porta, non ci capiterà mai più di rivedere dei loro affini. Se avessero battuto l’Italia, non avrebbero creato un modello per le squadre a venire: sarebbe stata solo la splendida incoronazione di un gruppo di stravaganti individualità che trovarono il loro picco nello stesso momento. Come Ron Burgundy e la sua squadra, dovettero adattarsi per non estinguersi. Sono cambiati, siamo cambiati, ma grazie al cielo i ricordi sono rimasti indelebili.
NB: da qualche giorno è disponibile in tutte le librerie la nuova edizione del saggio di Piero Trellini, in una sontuosa rivisitazione arricchita da immagini originali e inedite di Italia-Brasile e dei memorabilia legati al mondiale di Spagna ’82 collezionati dall’autore.
Articolo originale apparso l’11/07/2014 sulla rivista Esquire: https://www.esquire.com/uk/culture/news/a6396/1982-why-brazil-v-italy-was-one-of-footballs-greatest-ever-matches/
Un romanzo per narrare tutt altro …questa è La Partita per la definitiva prospettiva di Bearzot su Rossi, per la presa di coscienza di una forza invincibile mai vista, che proiettava ai migliori pronostici…e basta
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