
Per farvi capire quanta importanza diamo al lavoro (al di là dei cliché sull’affitto e il costo della vita), basti pensare che è la prima o seconda cosa che diciamo di noi dopo aver detto il nostro nome. E a venticinque anni parlare del mio lavoro – anzi, del lavoro che non avevo più – mi mandava in crisi. Facevo una fatica bestiale per raggirare la domanda parlando delle mie passioni, dei miei viaggi o del motivo per cui mi trovassi in un determinato posto, ma alla fine percepivo nei miei interlocutori un interrogativo ricorrente: “Ma cosa fa per vivere a Milano?”. E la fatidica domanda veniva fuori: “Sì, ma che lavoro fai?”.
E a quel punto iniziava il mio solito lamento sul fatto che da poco lavoro in un posto carino, ma prima lavoravo in una casa editrice – ovvero il mio sogno. Insomma, mi rendevo conto del fatto che parlavo del mio vecchio lavoro come se fosse una ex relazione tossica, e non c’era verso, avevo quel nodo lì del sogno infranto che non riuscivo a tenere per me. C’ho impiegato mesi, tra lacrime e rabbia repressa, prima di arrivare al fatidico momento in cui mi son detta: “Lascio questo lavoro, anche se non ho altro”, e nel bel mezzo una crisi esistenziale.
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