di Nadia Fusini

“Ma che ho fatto io della mia vita?” Ricordate? È il magnifico attacco del capitolo 17 di Al Faro. È la domanda che apre la meditazione interiore, silenziosa della signora Ramsay, mentre si siede al capo della tavola che ha preparato per i convitati. La signora Ramsay – che come ricorderete non ha nome proprio, ma è chiamata con il cognome del marito – non è solo l’ospite, la padrona di casa; è la Dea, la divinità donna che con fare sovrano amministra l’ostia della comunione. È lei che si addossa il peso del gesto dell’unire gli individui isolati che siedono al desco. Perché l’amore è anche questo, anzi forse solo questo: salvare dalla solitudine. Creare comunità. E il gesto femminile per eccellenza, nutrire, può assumere tale valenza simbolica. La signora Ramsay accetta il compito. Si guarda intorno, vede tutti gli ospiti separati gli uni dagli altri, e capisce che “lo sforzo del legare e del fluire e del creare poggiava tutto su di lei. Di nuovo sentì come un dato di fatto puro, non ostile, la sterilità degli uomini.”.
Sono pagine bellissime, che riprendono in modo romanzesco un pensiero dell’amica Jane Harrison, la studiosa del mondo antico che aveva raccontato dell’esistenza di un ‘mondo della Madre’, della madre e della figlia, di Demetra e Kore. Sì, prima degli dei dell’Olimpo, che sono particolarmente invisi a Harrison per via del loro sistema patriarcale, era esistita un’altra organizzazione sociale, dove governava la Madre. E attenzione, dove governa la Madre non vige la legge della forza, il culto del potere. Esiste un altro ordine, insegna Harrison.
Ed esiste un altro pensiero, apprende Woolf. Un pensiero-donna che è un pensiero non gerarchico. Non mette al top della gerarchia il raziocinio e poi via via in ordine sottoposto alla fine l’emozione. Ecco il senso di quella domanda della dea Ramsay.
Molte di voi woolfiane non avete l’età per farvi questa questa domanda. Io sì, e oggi più di quando per la prima volta lessi e poi tradussi questo magnifico testo, che dimostra come la letteratura possa essere una forma profonda di conoscenza.
E sì, caldamente invito gli amici e le amiche woolfiane a rileggere quelle pagine, quel capitolo. Con in mente questo pensiero: la lettura di un romanzo può essere un esercizio di ascolto profondo di sé attraverso l’altro, anzi, in questo caso l’altra. La nostra amata divinità.
