di Giuseppe Genna

E quindi, poiché sempre bisogna parlare, pur sempre bisogna aggiungere qualcuna di queste antiche sorelle a cui si dà addio, da sempre, ovvero le parole, si parlerà di un’anima che ha piegato il linguaggio a nuovi orizzonti, cioè gli antichissimi, facendo pulsare il muscolo cardiaco del mondo, schiudendone la valvola mitralica, apponendo un sorriso tra il beffardo e il saggio, tutta un’ipostasi del sentire, vedendolo mentre bambini si cercava il colore croco del sole in piazza Martini, tra una pallonata di Tele e un sorso alla vedova verde con il rubinetto a forma di testa di drago, che scintilla, nella pozza dove esubera l’acqua è una fanghiglia intrisa di filamenti carminio, sangue vivo dalle siringhe di eroina. È il 1978, io incontro Franco Battiato per la prima volta. È l’inizio lì, tutto, di tutto di me: questo tutto piccino, davanti all’uomo che mi dà il tutto immenso. Sgambetto per via Perugino, dove ha l’appartamento nella casa borghese, dal portone esce con Alice, vestito di nero, lo seguo, attraversa via Greppi, fende piazza Martini, si infila nel negozio a due vetrine che è la cooperativa Intrapresa di Gianni Sassi, che compone la pubblicità straniante del divano Busnelli, uno choc per Milano: Battiato androgino e settantino, strafottente e laico, avanguardista e spazientito, che ti parla da tutti i muri che urlano quel divano brianzolo (si arrabbiò molto con il designer Gianni Sassi, gli aveva tirato uno scherzo, non sapeva che quella foto era una pubblicità, che i muri di Milano avrebbero coinciso con lui).
I suoi accenti sono ignoti, le armoniche evadono via via sempre più, dalle fluttuazioni di “Foetus” fanno ingresso nella facilità, dichiarandosi esoteriche, creano il paradosso: involgarisce raffinandosi. Si crea, all’istante, l’atmosfera che ne fa il nome, il colpo d’ala, il buffetto a me bambino che gli chiede l’autografo e cerca di copiarne gli esotismi, le parossitone, le culminazioni. Di “Sentimiento nuevo” equivoco il verso “la passione nella gola” con “la passione nella colla”, penso a liquidi seminali, anticipando sempre ogni accento, lui: lo scomparso, il padre che non vuole esserlo. La magistralità non è di lui, poiché appartiene alle dottrine, efficaci e semplici, impossibili da realizzare, trasognato con i suoi occhi nemmeno bovini, tra il vitreo e la bonomia, il sorriso tremulo, quella faccia scalena da cui escono il cinghiale bianco, il cammello, l’ombrello, la macchina da cucire, Duchamp e Quinzio, Monteverdi e Ramana Maharshi, Gurdjeff e le ragazze ye-ye.

Come è triste ora fare a meno del padre che non lo è stato.
C’era, c’è, tuttavia, una sua maternità: perpetua, una cifra mariana del parto imminente, un’angelologia, che carazzava nell’aria che sa di pesca me mentre moriva Moro e non moriva più, non moriva mai. Dava alla luce (è letterale) il suono di Goldrake che sfinisce in Tenco, le ambasce dei Kraftwerk che risalgono alle passacaglie e alla giga, ritmi a sette ottavi, piazze di Berlino sconfinate nella voce muscolare e aliena di Milva che forzosamente era “rossa”, era “fulva”, per caso incontrava Igor Stravinskij. Ciò che fece fu la letteratura, non la musica soltanto. Non è vero che fu un genere, era letteratura, con la faccia da Pino Caruso che aveva il silenzioso Giusto Pio compositore con il violino e poi Manlio Sgalambro con le sue ipotassi rischiose, le sue sintesi vertiginose.
Franco Battiato sorrideva timidamente ed esercitava un lessico sconcertante, pareva uno scolaro delle elementari e io non riuscivo a indovinare il genio delle parole, che con due tratti verbali faceva tralucere l’Afghanistan alla Bicocca. Sapeva molto, non sapeva nulla.

Ho osservato a lungo, meditabondo, spegnersi il magistero, la sua faccia preternaturale e la tonalità che qualcosa con il Battisti dei dischi bianchi aveva a che fare per me e solo per me: quell’essere alieni, per essere umani. Quante giornate ad ascoltare, a ricordare che si ascoltava. Quante toppe di luce e angoli di stanze morte, imbiancate. Non sapeva cosa fosse il panico? La grazia che bilancia il disastro del mondo con l’aroma dell’essere era lui, gocciava dalla vita superiore in un’esistenza grossolana, in cui era cinghiale e cammello, l’animale che si portava dentro. E sfumava, la cognizione sfumava, ne era compromesso…
Oggi il padre cattolico che per primo ne ha dato notizia lo citava occultamente negli scritti. Tutto è occultismo, tranne l’amore. È con l’amore che va, mio, nostro, tutte e tutti insieme, a spingerlo, bardo nel Bardo, poeta nella fatica del sole a illuminare settantescamente l’esca del pallone nella piazza dove bambino torno, mai andato via, io, il piccolo io che ho e che gli sussurra: grazie… grazie.