
Se malauguratamente una persona nella vita tenta di fare una cosa come il sindacato, quando inizia a leggere in giro delle Grandi Dimissioni probabilmente sente dei brividi di paura che vanno a sbattere contro gli spasmi di scetticismo. Con ogni probabilità, il corpo diventa tutto un “Oddio e se fosse vero?!” incalzato da un “Ma figurati se è vero”. È forse ovvio (ma ribadiamolo ché non si sa mai): un fenomeno come le Grandi Dimissioni dà da pensare a chi tenta di organizzare le persone. È ovvio che torni scomodo il puntinismo disorganizzato e individuale di questa scelta se la propria vita è (anche) cercare di aggregare, mettere insieme, lavorare sempre nella direzione di far risaltare le somiglianze al posto delle differenze. Quando io leggo la frase: “I quitters e il sindacato, dal canto loro, incarnano due modalità diverse di rivolta della classe precaria”, a caldo non posso non storcere il naso.
Ho iniziato a leggere il libro di Francesca Coin dieci giorni dopo essermi licenziata dal mio posto di lavoro da dipendente nell’azienda di famiglia. Le ho chiamate le mie piccole dimissioni e le ho vissute in modo molto personale (e mi sa che non poteva non essere altrimenti, dopotutto). Piccole perché sono una, e perché se anche sto dentro il grande fenomeno delle Grandi Dimissioni continuo a sentirmi una. Questo è un po’ il punto: l’atomismo di una scelta del genere può essere guardato come fenomeno se viene vissuto come intimamente privato? Su questo tornerò dopo, anche perché l’anomalia italiana fatta di PMI non può essere trattata in parallelo con le realtà americane da migliaia di dipendenti — che pure è il paese da cui il fenomeno arriva e viene importato.
Coin, d’altronde, se lo chiede nella prima pagina: “Perché parlare di chi se ne va, invece che discutere di chi sciopera, organizza mobilitazioni e lotta?”. La risposta è forse qualche pagina dopo — o perlomeno quella che io ritengo essere la risposta pregnante in questa lettura estremamente posizionata e incarnata, per così dire: “Il nuovo rifiuto del lavoro è un fenomeno ambivalente e contraddittorio. Non è una soluzione alla deflagrazione delle nostre condizioni di lavoro e di vita, ne è un sintomo”.
Visto che quando scrivo ho la tendenza ad andare a ramengo, faccio un elenco di punti dolenti e fondamentali riguardo a questo libro. Sono più filosofici che non sociologici o nel merito (mi sento un’impostora a usare questi termini), nel senso che metodologicamente non mi metto a questionare l’esistenza o meno delle Grandi Dimissioni. Dandolo per buono come fenomeno e prendendo quindi la sua esistenza a mo’ di premessa, io vorrei ragionare su:
- Rapporto con la morte
- Individualismo/auto-sindacalizzazione
- Cosa lascia chi lascia?
- Dobbiamo deciderci sull’identificazione con il lavoro
Mettiamola così: forse non conoscete nessuno che ha dato le dimissioni o ha deciso di intraprendere la strada del libero professionista, ma di sicuro conoscete molte persone che hanno iniziato a parlare diversamente del lavoro post-pandemia. Se non molte, proprio tutte.
Lo dice anche il Rapporto Censis 2023: “Secondo l’istituto di ricerca, inoltre, il rapporto soggettivo degli italiani con il lavoro è cambiato”. La pandemia è stata un catalizzatore di disaffezione al lavoro che, dal canto nostro, speriamo non essere un fuoco di paglia: una nuova concezione del lavoro ha cominciato a serpeggiare a cavallo tra i settori, il forzoso stare in casa ha ridisegnato priorità e perimetri, e qualcuno si è stufato, qualcuno si è schifato e qualcun altro si è pure defilato dal proprio lavoro. Rimane vero che molti e molte — la maggior parte — sono rimasti dov’erano ma anche nelle loro parole l’eco della repulsione si rintraccia senza difficoltà. In ogni caso, “i quitters con la forza del proprio gesto di sottrazione sono riusciti ad accendere i riflettori sul mondo del lavoro e a porre all’ordine del giorno una discussione che è stata per lungo tempo rimandata”: che è quella sul come lavoriamo oggi e cosa diamo al lavoro in termini di investimento che non rende e non torna indietro.
E se è pur vero che in Italia, le dimissioni volontarie hanno sfiorato i 2 milioni nel 2021 e hanno superato questa soglia nel 2022 (pag 7), è in America che si va ad annidare il potere più deflagrante di questo fenomeno. Qualcuno, poi, ha voluto derubricare il fenomeno — e, in modo più colpevole, il discorso allargato che il fenomeno trascina con sé — come l’ennesima trovata à la page per parlare di persone benestanti che se ne vanno dal proprio lavoro perché possono permetterselo in pieno stile cottagecore, ma i dati parlando di qualcos’altro.
Non di soli freelance creativi o nomadi digitali si parla, ma di settori strutturalmente zeppi di lavoro precarizzato come la sanità (a vari livelli), la ristorazione, la grande distribuzione organizzata. Le grandi dimissioni nascono “come esito puntiforme e capillare dei propositi maturati nei mesi del lockdown, in una specie di riscrittura individuale e diffusa”, scrive Coin. Questo è il primo problema: l’aggettivo ‘puntiforme’.
Perché sono grandi in termini numerici e avvengono (magari) in gruppo ma ognuno per sé tanto che nel libro si parla di uno “sciopero generale non dichiarato”, dalla definizione di Robert Reich, ex ministro del Lavoro americano. È ciascun lavoratore a decidere per se stesso anche se in modo simultaneo ad altri. Capita (negli USA) che molte persone nello stesso luogo di lavoro si dimettano nello stesso giorno senza un’organizzazione dietro (ahi ahi).
→ Rapporto con la morte
Un Paese di lavoretti mentre fuori c’è la morte?
«Dalla pandemia in poi il rapporto delle persone con il lavoro è stato studiato in molti modi, e la letteratura sembrerebbe sostenere in generale che in tutte le professioni quel rapporto sia cambiato», ha detto al Guardian la docente della University of Nottingham Maria Kordowicz, che si occupa di comportamento organizzativo nelle imprese. Secondo Kordowicz, la diffusione di questa attitudine tra le persone è almeno in parte una conseguenza di riflessioni favorite dalla pandemia, sul senso del lavoro e sulla mortalità
Anthony Klotz, colui che ha coniato il termine “Great Resignation”, ha parlato anche di “epifanie pandemiche” e di come le persone, a contatto con la morte, abbiano iniziato a porsi “domande esistenziali” (tra virgolette sì, perché sembra essere bizzarro). È un rilievo interessante perché lavoro e morte di norma si associano a mo’ di molecola quando c’è da parlare di cronaca nera e di morte sui luoghi di lavoro (che pure è un tema del libro, da Est a Ovest del globo) invece parrebbe che abbiamo come esseri umani ricominciato a capire che il senso viene sempre dall’orizzonte della fine.
→ Individualismo/auto-sindacalizzazione
Siamo in un Paese in cui la cultura anti-sindacale è egemonica e, negli ultimi due anni, le Grandi Dimissioni sono state una risposta inattesa e disorganizzata a questa situazione di sfiducia nei confronti dei corpi intermedi.
Come scrive Coin, le Grandi Dimissioni sanciscono quindi una doppia crisi, tanto del modello produttivo quanto del ruolo del sindacato. Ma è anche la crisi del significato oggettivo del lavoro a vantaggio di quello soggettivo? Mi spiego: non sono infrequenti le storie di abbandono del posto di lavoro per discriminazioni su base etnica o di genere. Bene, discorso scivoloso in arrivo: possiamo forse dire che in un certo qual modo, se siamo nel merito del lavoro, esistono assi di discriminazioni a tasso variabile di individualizzazione. Le discriminazioni sulla propria persona e quindi personali per definizione possono essere così aberranti e insopportabili da far decidere di abbandonare il posto di lavoro; così facendo, mi viene da notare, si lascia dietro di sé il posto di lavoro dove il problema nasce ma che non si combatte se non sottraendosi.
Fuori dai denti: nelle scelte per il proprio benessere, alcuni dispositivi più individualizzanti prevalgono su quelli collettivizzanti (piuttosto banale come esito, sì).
“Il XXI Rapporto annuale dell’Inps conferma queste ricollocazioni e dice che, a tre mesi dalla data delle dimissioni, poco più della metà delle persone che avevano un contratto a tempo indeterminato si è ricollocata: il tasso di ricollocazione nel 2021, infatti, è del 57 per cento.” In quelle che, a questo punto, è giusto chiamare le Grandi Ricollocazioni, mi chiedo oziosamente se nell’andare verso un altro settore, i lavoratori e le lavoratrici portano con loro qualcosa di sostanzioso in termini di bagaglio esperienziale e cognitivo. Ancora una volta, mi spiego: si può forse dire che la dimissione è un’auto-sindacalizzazione? E che quindi, dal momento della fuoriuscita da un luogo di lavoro negativo, l’esperienza accumulata (nel bene e nel male) e la capacità di vedersi in grado di lasciare un posto di lavoro, cambino in modo così radicale la propriocezione del soggetto sociale che può, a questo punto, dirsi quasi auto-sindacalizzato? Tutto si impara e da tutto si impara e per questo mi chiedo se questo movimento centrifugo sia anche un piccolo paletto piantato in terra per poi resistere alle intemperie future, nel momento del ricollocamento e della nuova ricerca dentro il mercato del lavoro.

Le Grandi Dimissioni sono “un momento individuale di verità trasformato in un fenomeno collettivo teso a rinegoziare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non è più accettabile”: ma siamo sicuri che quando saremo di nuovo nella condizione di accettare un altro lavoro per campare la barra sotto la quale non scendere sarà sempre così visibile? Lo lascio qui come domanda, non ho le competenze per rispondere (ma ho del tempo per pensarci).
→ Cosa lascia chi lascia?
La penso in modo semplice: non si lascia il lavoro, si lascia sempre un lavoro. E anche le Grandi Dimissioni parlano di questo, non di rifiuto del lavoro in assoluto (d’altronde, toccando anche chi non potrebbe permetterselo, non possiamo aspettarci che non si voglia ricollocare nel giro di qualche mese). Il caso Italia è peculiare per più ragione, come pure illustra bene Bruno Anastasia in un’intervista per “una città”.
“Bisogna inoltre ragionare sul fatto che il rapporto di lavoro, soprattutto in un sistema di piccole imprese, costituisce anche una relazione tra persone, non è un rapporto sociale astratto con un’entità imprecisata come può accadere nelle grandi organizzazioni. Ed essendo una relazione è soggetta a tutte le difficoltà delle relazioni umane: incontrarsi, frequentarsi, sopportarsi non è scontato. E non c’è solo l’imprenditore che sceglie i dipendenti, c’è anche il dipendente che sceglie l’imprenditore, ed è un fatto estremamente positivo […]”.
Coin poi parla di “anomalia italiana”: perché nel nostro Paese il quadro che ci troviamo di fronte quando parliamo di lavoro è: “un elevato tasso di insoddisfazione, dunque, in un contesto privo di opportunità”. Oltre che, evidentemente, quello che per i commentatori sembra essere il pericolo sociale più inquietante degli ultimi 20 anni: il reddito di cittadinanza. (*su questo, però, essendo una concrezione molto specifica, rimando al libro ché qua sto cercando di fare una roba di inquadramento diverso):
“Rispetto a quanto accadeva ieri, il fatto stesso di avere un impiego non risolve le preoccupazioni di chi lavora. Le paghe sono così esigue e i carichi di lavoro così elevati che c’è chi teme di non riuscire a pagare l’affitto nonostante il lavoro. È dunque lecito ipotizzare che la paura di perdere il lavoro sia proporzionale a ciò che il lavoro dà. E se il lavoro paga poco, per chi lo lascia ci sarà poco da perdere” (pag. 59).

Ovvero: quando si lascia lo si fa per mille motivi diversi, personali come strutturali, ma di sicuro lasciare oggi sembra paradossalmente più facile.
→ Dobbiamo deciderci sull’identificazione con il lavoro
Nel capitolo dedicato alla She-Session (la fuoriuscita delle donne dal lavoro che interseca pure le questioni di lavoro di cura), c’è la storia di storia di Sole che mi ha dato da riflettere: prima cassiera e ora atleta e personal trainer (*come è successo? Non viene indicato: ci saranno stati periodi di non lavoro e formazione? Possiamo solo presumere).
Nelle mansioni da cassiera l’identificazione con il proprio lavoro era “comprensibilmente limitata”. Ma quindi dobbiamo identificarci o no? O il problema sono i salari? O un po’ entrambe le cose?
Il lavoro non ti ama e nemmeno noi lo amiamo ma sempre meglio farne uno che amiamo che uno che detestiamo, no? Sembra che in qualche modo non possiamo sfuggire alle coordinate di cui al primo punto: al crescere dell’importanza accordata al contenuto del rapporto soggettivo (identificazione, status, desiderabilità, etc. ma sempre come un qualcosa di mediato dal giudizio sociale) con il lavoro, perde terreno l’abitudine di accordare contenuti più oggettivi e misurabili allo stesso lavoro (salario/compenso, ritmi, ambiente umano, possibilità di crescita).
Le Grandi Dimissioni ridisegnano l’identificazione con il lavoro, però quando si parla ad esempio del lavoro in un supermercato, bisogna essere onesti e chiedersi dove si vuole andare a parare, come società presa nel suo insieme: con diversi ritmi e salari, questo lavoro potrebbe essere desiderabile o ad oggi non lo è più, in assoluto? Vogliamo insomma dirci che alcuni lavori non sono più desiderabili — e che speriamo nell’automazione di alcuni processi e procedure ovvero veri e propri posti di lavoro?
Nonostante sia chiaro come si vada in cerca di lavori pagati meglio e meno usuranti, si va sempre in cerca di qualcosa per cui valga la pena vivere, qualcosa con cui identificarsi di più.
“La società non le domandava solo di fare il proprio lavoro, ma di essere ciò che le veniva chiesto”, si legge sempre in relazione alla storia di Sole. Mi sembra che se anche la società lo chiede — e lo chiede, eccome se lo chiede — noi stiamo rispondendo ancora con forza: sì.

Silvia Gola è copywriter, lavora in editoria e comunicazione .
È attivista di Redacta e solitamente si occupa di lavoro, letteratura, editoria e condizione femminile.