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La rivincita degli spostati

Nella seconda metà degli anni Sessanta, alle elementari, mancando il contraltare della normalità, ci accanivamo tra di noi, irridendo diversità quali la bassezza, le orecchie a sventola, il nome, oppure ci accontentavamo di Oscar, un pesce palla in mezzo a noi smilze sardine, ultima generazione cresciuta schivando merendine e bibite gassate.

di Romeo Vernazza (da Mr. Hyde – Frammenti, 2021)

Dov’erano i diversi, nella seconda metà degli anni Sessanta, quando andavo alle elementari? Non ricordo nessun bambino problematico, disabile o svantaggiato in tutta la mia scuola. C’erano barriere e tanti scalini, classi maschili e femminili, gli insegnanti di sostegno erano ancora nel mondo dei sogni. Era un brutto posto per soli normodotati, in fondo. Pensandoci bene, non li vedevo neppure in giro, quei bambini. Venivano tenuti in casa oppure portati in posti speciali ma solo per loro, lontano dalla vista e dal paesaggio della normalità. Siamo così cresciuti con l’ignoranza e la paura del diverso, avevamo strane idee in testa che nessuno ci correggeva, pensavamo che i mostri più orrendi fossero tutti rinchiusi nel Cottolengo, sede privilegiata per storie da brivido, col sollievo di essere salvi e normali, senza neppure un’ombra di compassione per quelle anime sofferenti.

Alle elementari, mancando il contraltare della normalità, ci accanivamo tra di noi — cane mangia cane — irridendo diversità quali la bassezza, le orecchie a sventola, il nome (io ne so qualcosa) oppure ci accontentavamo di Oscar, fonte di sicuro scherno che riuniva in sé due caratteristiche spregevoli. Era l’unico ciccione della classe, una rarità per i tempi, un pesce palla in mezzo a noi smilze sardine, ultima generazione cresciuta schivando merendine e bibite gassate. Seconda qualità riprovevole: Oscar era arrivato con i genitori da qualche paese lontano, parlava davvero strano, mica come noi, era il foresto, grasso bersaglio di scherzi e epiteti. E dagli al diverso. Per sua fortuna restò solo un anno e poi si trasferì nuovamente chissà dove. Ricordo i suoi occhi sgranati per lo stupore, non reagiva neppure. Sì, non eravamo violenti ma molesti sì, delle merde insomma, con quella brutalità casuale che spesso attecchisce nell’animo dei bambini. Ci ho ripensato spesso, a Oscar, in passato e in questi giorni, vergognandomi profondamente, fino a starci male, per aver fatto parte occasionalmente di quella congerie di piccoli, stupidi bastardi. Non so se fu quel film a rendermi più decente e rispettoso del prossimo, sicuramente contribuì. Il televisore arrivò nella nostra casa quando avevo quasi finito le elementari.

“Perché tutti stiamo morendo, ogni minuto ci avviciniamo alla morte, eppure non ci insegniamo a vicenda quello che sappiamo!”

Gli spostati, regia di John Huston, 1961

Che emozione quei film in prima serata, visti insieme ai miei, seduti al tavolo, nella penombra, in cucina. Ricordo ancora i commenti genuini, le esclamazioni di mamma e papà, la mia attenzione e la crescente fame di cinema. Alcuni titoli che mi sono rimasti impressi: Giorni perduti (il delirium tremens!), La cosa da un altro mondo (la coperta distrattamente posata sul blocco di ghiaccio che racchiude il mostro!) e Il ragazzo dai capelli verdi, un film strano e intenso del 1948, diretto da Joseph Losey, regista osteggiato negli USA del primo dopoguerra per le sue idee sovversive e comuniste. Il film racconta la storia del decenne Peter (Dean Stockwell, uno dei pochi bambini prodigio ad avere avuto una bella carriera), mandato a vivere col nonno. Durante una raccolta di fondi, Peter viene a sapere che è un orfano di guerra, che il babbo è morto e non lo vedrà mai più. La sera, per consolarlo, il nonno gli mostra una pianta sempreverde, raccontandogli che la speranza è sempre viva e verde nel cuore. La mattina dopo Peter si accorge con stupore che i suoi capelli sono diventati verdi. Basta quello per spostarlo nella categoria dei diversi. In paese non si parla d’altro, circola voce che la sua sia una malattia contagiosa, i compagni di scuola lo evitano o lo sbeffeggiano. Il finale mescola l’amarezza del pregiudizio con la speranza e la volontà di superare ogni conformismo.

Ero un bambino ma ricordo bene le scene del bagno e del barbiere, riuscendo a superare anche il gap cromatico, per i capelli verdi in technicolor che per noi erano una diversa sfumatura di grigio, visto che la tv trasmetteva in bianco e nero. Un grande film anticipatore, che dovette apparire bizzarro per attraversare efficacemente un’epoca di forte discriminazione razziale e di terrore per la bomba atomica, rivelando l’umana pochezza dell’America profonda e bianca. Un racconto che, pur nella sua visione allegorica, svela e condanna i mali tremendi di quel periodo. Per forza ed efficacia, ricordo anche il fantascientifico Ultimatum alla Terra, di Robert Wise, girato appena tre anni dopo. Al tempo del Liceo la diversità si affacciò con una nuova categoria di persone strane, che non si inserivano proprio, degli spostati, un termine che sentii la prima volta da mia madre, a proposito di un tipo strambo del paese. Mi colpì molto l’idea di persone come suppellettili fuori posto, a languire dopo un forzoso trasloco.

Gli spostati al Liceo erano solo di passaggio, duravano ben poco in quell’intrico di diligenza indotta e programmi ministeriali. Ricordo un ragazzo seduto in fondo all’aula che sembrava l’indiano di Qualcuno volò sul nido del cuculo e altre figure che oggi potrebbero benissimo rientrare nel cast de Il grande Lebowski. Intendiamoci, l’argomento è vasto di esempi, la storia del cinema è piena di spostati, trattati con minore o maggiore benevolenza, contrapposti al perbenismo e al conformismo del sistema del momento. Qui mi interessano l’oggi e la realtà giovanile. Si tratta di tre serie televisive che delineano bene la rivincita del diverso. Solita nota dolente: prodotti così ben realizzati in Italia ce li sogniamo. Specchio dei tempi, le prime due serie sono basate sui fumetti di Charles Forsman e sono state create dal genio maturo di un trentasettenne inglese, Jonathan Entwistle.

The End of the f***ing world è un inno alla gioventù bruciata, una caotica e stupefacente commedia british intrisa di panico nei confronti di una società infestata da doveri incomprensibili. Se Il ragazzo dai capelli verdi riuscì a stigmatizzare la bieca normalità con lo strumento dell’allegoria, questa serie è un inquietante e divertente reportage dal disastro del mondo dei vivi. Due giovanissimi spostati: James, che a otto anni uccideva animali e metteva la mano nella friggitrice per “sentire qualcosa”, e la rabbiosa e insofferente Alyssa, abbandonano la scuola e vanno in giro per il mondo, non sanno cosa vogliono ma sanno come ottenerlo o almeno ci provano. Rubano, incendiano, scappano da adulti ebeti o fastidiosi, infrangono le norme del vivere civile e ammazzano un uomo per legittima difesa. Il loro No future è un oggi fatto di fughe inutili e disperate dai danni da loro stessi provocati. La prima stagione è pura avventura e ha un gran finale tipo Fino all’ultimo respiro di Godard poi rifatto da Jim McBride. La seconda stagione è una pianura di fraintendimenti, alla confusa ricerca della normalità, che si colora di ulteriore pazzia. È L’anno scorso a Marienbad di Resnais però proiettato a 48 fotogrammi al secondo. Dopo un lungo periodo i due protagonisti si incontrano di nuovo.

“Siamo così cresciuti con l’ignoranza e la paura del diverso, avevamo strane idee in testa che nessuno ci correggeva, pensavamo che i mostri più orrendi fossero tutti rinchiusi nel Cottolengo, sede privilegiata per storie da brivido, col sollievo di essere salvi e normali, senza neppure un’ombra di compassione per quelle anime sofferenti.”

La storia ricompone i frammenti di quella meraviglia oscura che era la prima stagione, ma li accosta a caso. James è uno sciancato che porta sempre con sé l’urna cineraria del padre, mentre Alyssa si imbarca in uno dei matrimoni più sgangherati e divertenti dell’immaginario filmico. Mentre l’ombra di qualcosa simile all’amore si manifesta tra i due, le vicende diventano più sanguinose, scivolano in un viaggio convulso e comico-tragico che parte da un motel, prosegue in un ristorante cinese e poi in una farmacia e ha il suo memorabile culmine in una caffetteria, tra atmosfere di Lynch e ritmi dei fratelli Coen. Una serie da vedere tutta di un fiato – sono circa tre ore in tutto, un po’ meno di Apocalypse Now Redux – oppure divisa per le due stagioni, come due film diversi e autonomi. Avvertenza: ai due personaggi bisogna un attimo farci l’abitudine, superare quel leggero fastidio della novità, quindi non abbandonate dopo il primo episodio.

L’altra serie di Entwistle, I am not okay with this, segue lo stesso filone ma è maggiormente complessa. Complici i produttori di Stranger Things, si inserisce un elemento fantastico, paranormale e misterioso, un’ombra che appare e scompare, incarnandosi forse nel padre morto della protagonista, Sydney Novak, una strana diciassettenne schiva e introversa, emarginata dai compagni di scuola, che vive in un mondo dove gli adulti sono al solito dei dementi o degli inetti. La sua angoscia repressa le fa sviluppare dei superpoteri incontrollabili e dagli effetti devastanti, che si manifestano al loro apice in una scena decisiva e straniante che cita Carrie, lo sguardo di Satana. Altra serie da vedere tutta insieme, la lunghezza di un film, è solo una stagione, la seconda è stata soppressa a causa del Covid-19 e probabilmente è morta lì. Ritorno all’inizio. I tempi da me rievocati sono davvero lontani e per fortuna la scuola è cambiata nel segno dell’inclusività. Bambini e ragazzi con disabilità hanno il sostegno e partecipano alla socialità e alla vita scolastica, anche se chi conosce a fondo la situazione sa bene che c’è ancora molto da fare, dentro e fuori. 

Sui disturbi autistici, per esempio, e sull’incapacità di intraprendere una relazione sociale per difficoltà di interazione e di interpretazione di pensieri, desideri ed emozioni espresse dagli “altri” in forme implicite, poco chiare, ambigue che pur costituiscono la norma. I personaggi con disturbi dello spettro autistico o con tratti tipici dell’autismo occupano un posto importante nel cinema o nelle serie televisive. L’Internet Movie Data Base ha raccolto 337 titoli di film, documentari e serie televisive che dal 1969 a oggi hanno affrontato quel tema. Rain Man – L’uomo della pioggia (Barry Levinson, 1988) e il personaggio interpretato da Dustin Hoffman hanno diffuso nel mondo la conoscenza della condizione autistica. Da quel momento si sono moltiplicate le opere sull’argomento. L’accuratezza della realizzazione filmica, spiegano gli esperti del settore, è essenziale per definire la differenza fra un ritratto errato che può peggiorare ignoranza, pregiudizi e stereotipi, e uno autentico che al contrario può contribuire a diffondere consapevolezza e conoscenza di tutte le sfumature dello spettro.

È noto che la fiction spesso insiste sull’abbinamento “autismo – sindrome del savant” per motivi spettacolari, in quanto i protagonisti con quelle caratteristiche (nella realtà sono ben pochi in termini numerici) hanno facoltà speciali in settori specifici, spesso enormi capacità mnemoniche, mentre per tutto il resto hanno un ritardo cognitivo e difficoltà relazionali. Si tende insomma a creare una figura di supereroe specializzato ma pieno di debolezze, che genera nel pubblico forti sensazioni. È il caso della serie Atypical e soprattutto di The Good Doctor. Quest’ultima, basata sull’omonima serie sudcoreana e sviluppata da David Shore, il creatore del Dr. House, pone un interessante quesito: può una persona autistica essere un buon dottore? Domanda che porta a una riflessione ancora più estesa: cosa fa realmente di una persona un buon dottore? Qui Freddie Highmore, già giovanissimo Norman Bates nella serie Bates Motel, interpreta con estrema bravura il protagonista, il dottor Shaun Murphy. Ben impostata dal punto di vista medico e scientifico, la serie avvince e contribuisce a far conoscere una condizione umana ancora non ben compresa dal grande pubblico. 

Dal punto di vista filmico e narrativo l’influenza dell’inventore del Dr. House si vede subito, a cominciare dalla sigla fino alle ambientazioni e alle interazioni dei personaggi. Tuttavia questi ultimi a mio parere sono il grande punto debole, insieme a una eccessiva ripetitività patologica dei casi e un tratto melenso che pervade progressivamente la serie. Manca il cinismo del miglior House delle prime stagioni e quando c’è è solo un solo un fastidio inevitabile da superare, ma mi sembra comunque che The good doctor debba essere recuperata. Il pilot, banco di prova per ogni serie, è davvero magistrale nel suo sviluppo. Anche alcuni episodi successivi sono notevoli, quelli in cui il dottor Shaun si confronta con la diffidenza che genera la sua posizione o quando per esempio deve relazionarsi con un piccolo paziente con una forma autistica più invalidante della sua. Chiudo con la doppia definizione corrente che i dizionari danno del sostantivo “spostato”:

• Persona che ha gravi difficoltà a inserirsi e a realizzarsi nella società e nei rapporti umani;

• Persona che si trova in una condizione di vita diversa da quella che gli sarebbe convenuta o spettata per natura, studi, capacità ecc.

E con una riflessione finale: non è che siamo tutti un po’ degli spostati, qui dentro nei social e là fuori? Mi sa proprio di sì. Ma, se siamo tutti spostati, dov’è il posto giusto?


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