Letteratura Poesia

Sul romanzo italiano più bello degli ultimi dieci anni

La scrittrice Valentina Durante riflette sull'uso esagerato dei superlativi spesi nella letteratura e nella critica. Questo fenomeno evidenzia una tendenza a valutare la letteratura, negli ultimi anni, soprattutto in base a misurazioni quantitative anziché qualitative.

di Valentina Durante

La scrittrice Valentina Durante

Da qualche tempo mi sono accorta di un vizio retorico che mi prende quando parlo di letteratura, e frequentemente anche quando ne scrivo, e cioè l’uso disinibito del superlativo relativo o di altre espressioni che implicitamente alludono a una definizione quantitativa del valore. Lo riscontro in me e lo riscontro fuori da me: negli altri, nel loro parlare e nel loro scrivere, segno di una tendenza in atto o perlomeno di una diffusa postura mentale. Ieri mi sono dunque permessa un piccolo esperimento di psicologia social-mediale. Ho pubblicato su Facebook – quasi di seguito – due post molto simili nella sostanza ma del tutto diversi nella forma. Il primo – una sorta di mia lettura personale su Zanzotto – era uno dei tipici post anti-Facebook: troppo lungo, con troppi rimandi ai testi, variamente argomentato ma senza frasi a effetto, un testo sostanzialmente piano. Il secondo era più breve ed esordiva così: “Sto leggendo in questi giorni il romanzo italiano per me più bello degli ultimi dieci anni”. La frase è stata strutturata a bella posta per attirare l’attenzione. Inizia con una costruzione durativa stare + gerundio (“sto leggendo”) che è più coinvolgente del verbo usato all’indicativo perché espone l’azione nel suo farsi: il lettore si sente inconsciamente spettatore in presa diretta dell’azione.

Segue una determinazione di tempo (“in questi giorni”) che, nello specificare, aggiunge realismo, dopodiché si cala l’asso del complemento oggetto – “il romanzo italiano” – seguito finalmente dal superlativo relativo “più bello di tutti” (smorzato da quel “per me” che evita eccessiva enfasi) e da una perimetrazione temporale (“degli ultimi dieci anni”: ancora realismo, ancora smorzatura dell’enfasi – se avessi detto “il più bello di sempre” sarebbe sembrata una sparata). Le frasi che di lì seguono puntano a circoscrivere cosa intenda io per “romanzo più bello”; sono affermazioni che corrispondono a verità (non ho mentito), ma che si applicano in fondo a qualsiasi romanzo io consideri meritevole di lettura – e per fortuna ce ne sono molti. Ora, questo secondo post ha ottenuto molta più attenzione del primo. Del resto anch’io, se avessi scrollato la mia bacheca non sapendola mia e mi fossi imbattuta in quei due contenuti, avrei per scarsità di tempo saltato il primo (magari ripromettendomi di leggerlo poi – cosa che non avrei fatto) ma, incuriosita, mi sarei soffermata a leggere il secondo. Il cui fulcro sta appunto nell’attacco e in quel superlativo relativo: “il più bello”, una forma che indica una quantificazione del valore, giacché senza una quantificazione perlomeno implicita o mentale non posso stilare nessuna gerarchia. E mi chiedo: a partire da quando la letteratura è diventata una faccenda di misurazione quantitativa del valore?

“Il romanzo italiano più bello dell’anno.” “L’autore italiano più bravo della sua generazione.” “Una delle voci più interessanti della nuova narrativa italiana.” Sono espressioni ricorrenti non solo nelle fascette pubblicitarie – dove non ci si aspetta nulla di diverso, beninteso – ma anche nei testi critici e nelle restituzioni di lettura. Le adopero anch’io – me ne sono resa conto – e con sempre maggior frequenza (si veda il mio post Facebook sul romanzo – molto bello, confermo – di Giorgio Falco). Ripeto: nulla di male o di strano quando si tratta di paratesti promozionali, ma il dilagare generalizzato pone inevitabilmente l’accento su quanto il gusto letterario sia diventato una questione di contabilità. Direte: ma le classifiche di vendita esistono da decenni. Verissimo ma si tratta, giustappunto, di classifiche che organizzano in una graduatoria il venduto, il quale non è in rapporto diretto (né inverso) con la qualità letteraria dell’opera; il venduto ci dice solo, e percentualmente o in rapporto a un indice, il numero di persone che hanno acquistato quel libro, senza chiarire se queste persone lo hanno poi letto o se lo hanno apprezzato e perché. (per dire: mia nonna ha avuto nella sua vita due sole letture: “Novella 2000” e “Tv Sette”; avendo però una libreria piuttosto capiente e avendo lei di essa un concetto per così dire arredativo, acquistava regolarmente libri per riempire gli scaffali in armoniosa alternanza con le fotografie di famiglia sotto argento e i vasetti di piante grasse; quando le pareva che il libro fosse passato di moda, lo cambiava; mia nonna era un’acquirente non-lettrice che valutava il libro con due parametri: l’estetica di copertina – e del dorso in particolare – e le dimensioni del volume.

Caso raro, direte, caso borderline, ma non impossibile; tutt’ora sospetto che parte del successo del “Club degli editori” avesse molto a che vedere con l’interior design). Si è detto spesso del fenomeno di smottamento che ha interessato e sta tuttora interessando la critica e che ha portato al tramonto o alla marginalizzazione del critico colto e professionista: la recensione di un booktuber – si dice – sposta oggi più vendite di un articolo su “La Lettura”. Ma siamo ancora nell’alveo del commento qualitativo – la recensione dal basso che s’impone sulla recensione dall’alto financo scalzandola – mentre a me pare che un meccanismo ancora diverso stia intervenendo a riorientare gli equilibri: non più solo il “chi” o il “come”, ma soprattutto il “quanto” – il numero. La quantità di stelline o di cuoricini; il numero di premi vinti o di finali guadagnate; la posizione nelle “Classifiche di qualità”, il cui intento è benemerito – intendiamoci – ma che non fanno che rafforzare questa inclinazione alla scorciatoia cognitiva che compendia una considerazione così scivolosa e sfaccettata sul valore, sulla bellezza, con la dittatorialità semplificatrice del numero: da 1 a 10: merita; oltre al 10: finisci nella confusa e magmatica terra di nessuno dei non grassettati. E i superlativi relativi, appunto: la sicurezza del sentirsi dire: “è il più”. Quando si cominciò a parlare di web partecipativo o Web 2.0, Chris Anderson, al tempo direttore di “Wired USA”, coniò la teoria della “coda lunga”: il venir meno delle barriere fisiche fatte cadere dalla distribuzione online avrebbe aumentato a dismisura l’ampiezza dei cataloghi generando una proliferazione di nicchie. Era la fine dei libri fuori catalogo, o privi di sufficiente massa critica per raggiungere lo scaffale di una libreria fisica. La teoria si è dimostrata sbagliata e il motivo ce lo spiegò Barry Schwartz – psicologo esperto di teorie sociali – nel suo “Il paradosso della scelta”: nel momento in cui l’offerta si moltiplica per incontrare sempre più gusti, aumenta per paradosso la frustrazione dovuta al sospetto di non riuscire a compiere la scelta migliore. Per sfuggire a tale frustrazione, che determina nei fatti una minore soddisfazione post-acquisto, le persone via via si allontanano dall’estremità della famosa coda di Anderson per riportarsi in testa; nella sua verità incontestabile, il numero permette loro di fare ciò: se l’autore ha tante stelline, se è in vetta a qualche classifica, se è “il più” relativamente a qualcosa, allora varrà la scommessa di destinarci del tempo e qualche denaro.

Non che sia un criterio peccaminoso o fallace, ma forse rischia di perdersi per strada le sfumature dei distinguo e una scomoda verità: che determinare il valore artistico di un’opera è un’operazione molto molto complessa; difficilmente si lascia comprimere in un numero, e ancor più difficilmente si giova dei tempi rapidissimi ai quali la gerarchizzazione da classifica ci costringe oggi. Dunque no: non c’è nessun romanzo italiano per me “più bello”; in questo momento sto continuando con la rilettura delle “Confessioni” di Agostino al quale ho abbinato “Lettere sul dolore” del filosofo cattolico Emmanuel Mounier.


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