Paul Auster, la Trilogia di New York

di Maria Luisa Mozzi

Trilogia di New York è uscito negli Stati Uniti fra il 1985 e il 1987. La traduzione in italiano e la pubblicazione in Italia risalgono alla metà degli Anni Novanta. Il libro contiene tre racconti, Città di vetro, Fantasmi e La stanza chiusa. Sembrano all’inizio tre noir, ne hanno i temi e la tensione; ma i detective non arrivano alla soluzione dei casi, e i finali lasciano misteri e fili sospesi. Nei primi due racconti c’è, in ciascuno, un lungo pedinamento; nel terzo ancora un rapporto a due, con un protagonista che scompare e regala la sua vita a un amico d’infanzia. Il tema del doppio è dominante. Tutti e tre racconti sono ambientati a New York. Un oggetto, un taccuino rosso, fa da fil rouge. Filo che unisce, rosso anche lui, come il taccuino. Trilogia di New York contiene delle dichiarazioni di poetica, che sono anche una guida per il lettore su come leggere le storie.

«Nulla è reale tranne il caso».

Le Voci

    Il primo suggerimento al lettore è di porre attenzione alle voci. Occorre capire di chi siano le varie voci e anche la loro grana. In Città di vetro il protagonista pubblica i suoi gialli con uno pseudonimo, William Wilson. William Wilson è il titolo di un racconto e il nome del protagonista di un racconto di Poe. William Wilson di Poe ha un omonimo che lo inquieta, un compagno di collegio che gli somiglia in tutto, tranne che nella voce. Questo compagno di collegio lo perseguita, è il suo incubo. Scappa, William Wilson protagonista, cerca di mettere distanza fra sé e il suo omonimo; e l’altro dietro, a imporsi e a tormentarlo con la sua presenza e la sua voce.  Alla fine, a Roma, il doppio denuncia in pubblico la disonestà nel gioco d’azzardo del William Wilson protagonista. William Wilson protagonista lo sfida e lo colpisce a morte.  L’altro, il persecutore, in punto di morte gli appare non più come persona viva ma come un’immagine nello specchio. La voce di quell’immagine gli dice che troverà assieme a lui la sua morte. Il doppio di William Wilson del racconto di Poe assomiglia in tutto al protagonista ma è diverso nella voce. Le voci, il ruolo, lo statuto di chi parla, il modo in cui parla, sono un elemento importante nelle narrazioni. Ho fatto un giro lungo il giro per spiegarlo. Ma la prima indicazione al lettore è questa.

    Le Storie

    Bisogna lasciare andare le parole e le storie. La Trilogia di New York contiene tre storie diverse ma che, «in sostanza […] sono una cosa sola». Il protagonista dell’ultimo racconto, La camera chiusa, dice che ha scritto tre volte la stessa storia con parole diverse, per riuscire ad acquisirne consapevolezza. A quel punto si è fidato a lasciarla andare. Le parole lo hanno attraversato e sono uscite. È come se dicesse al lettore: fa’ attenzione, il tema di questo libro è il travaglio che fa nascere la storia. Lì sta il motivo di scriverla tre volte: permettere che le parole attraversino il corpo fino al punto da uscire da sole; lasciarla andare, finalmente, quella storia.

    Il destino dei personaggi è più reale delle loro azioni

    «Nulla è reale tranne il caso». Paul Auster chiama in causa Jaques le fataliste. Il romanzo di Diderot è una presa in giro del romanzo, come Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Sterne, a cui si ispira, antiromanzo per eccellenza. Il pensiero di Jaques si riassume nella frase «tout ce qui nous arrive de bien et de mal ici – bas était écrit là – haut». I nostri destini sono già scritti, sono più reali della realtà delle nostre azioni nel mondo. È come se Auster dicesse al lettore: nei tre racconti della trilogia, il reale è quello che c’è scritto nel destino, là – haut; non affannarti troppo a capire l’ici – bas, le azioni, che in fondo sono trascurabili. Cerca di capire il destino dei personaggi, e non importa se le loro azioni ti appaiono incoerenti o inconcluse. Ribadisce il concetto Don Chisciotte, anche lui della famiglia dei burattinai dei personaggi e delle storie. Don Chisciotte non si accontenta di scrivere le storie che gli piacciono, vuole addirittura viverle. Il narratore è perplesso per questa scelta, come se per lui scriverle o viverle, quelle storie, fosse la stessa cosa. Comunque: il destino dei personaggi è più reale delle loro azioni. Questa è la terza indicazione al lettore.

    Gli attanti

    L’ultima affermazione di poetica riguarda un tentativo di mettere ordine fra gli attanti. Il protagonista del primo racconto dice di essere uno e trino. Si chiama Daniel Quinn. Scrive romanzi gialli con lo pseudonimo di William Wilson, come si è detto. In questi romanzi gialli il protagonista è il poliziotto privato Max Work, che è, per l’appunto, quello che lavora sul serio, che risolve i casi. «Nella triade di io che Quinn era diventato, Wilson fungeva da ventriloquo, Quinn stesso era il pupazzo, e Work la voce animata che garantiva uno scopo all’impresa». A questa triade si deve aggiungere Paul Auster, l’autore e anche il personaggio finzionale, visto che nella prima storia c’è, seppure in assenza, un personaggio che si chiama Paul Auster. La quarta affermazione di poetica è quindi una sollecitazione al lettore a non ingarbugliarsi, ad avere ben chiari chi siano i burattinai e chi siano le marionette.

    CITTÀ DI VETRO

    Città di vetro, al contrario degli altri due racconti, esordisce in terza persona. Daniel Quinn è uno scrittore di romanzi gialli e usa lo pseudonimo di William Wilson. Non lo sa nessuno, che quello è uno pseudonimo. Quinn da giovane scrive poesie, drammi saggi, traduce opere letterarie. Gli muoiono la moglie e il figlio. Quinn vuole rimanere Quinn solo per se stesso, e delega a William Wilson il compito di scrivere; di scrivere romanzi gialli. I romanzi gialli gli vanno bene perché sono indolori: sono essenziali, nel senso che nel romanzo giallo ogni frase contiene una informazione utile e non ci sono informazioni non utili; sono chiusi, perché alla fine il cerchio della narrazione contiene tutto, non lascia fuori niente. William Wilson scrive gialli, ne fa routine. Ne scrive uno all’anno per vivere. Ci mette sei mesi e i rimanenti sei mesi è libero.

    A Daniel Quinn rimane tempo per leggere, andare al cinema, alle mostre d’arte. All’inizio del racconto Quinn viene scambiato da uno sconosciuto per un detective, tal Paul Auster. Gli viene chiesto di accettare un pedinamento e lui, che è uno scrittore, non un detective o un poliziotto privato, senza rendersi conto del perché, accetta l’incarico. Si compera un taccuino rosso su cui scrive gli appunti relativi all’indagine. Il lavoro consiste nel proteggere Peter Stillmann da suo padre. Stillman iunior stesso e sua moglie gli raccontano la situazione. Stillman senior, quando Peter era bambino, lo aveva costretto per molti anni in una stanza isolata e buia, allo scopo di vedere se in questo modo Peter riuscisse a parlare con le parole di Dio. Era uno studioso di filosofia e religioni, Stillman senior, e sognava di trasformare il Nuovo Mondo nel Paradiso Terrestre. Un incendio fa scoprire la segregazione. Liberato dalle sevizie del padre, Stillman iunior viene mandato in una clinica, dove gli insegnano a parlare, a muoversi, a relazionarsi con gli altri.

    Il padre in tribunale viene considerato pazzo, e anche lui accolto in una clinica. Ora Stillman senior sta per esserne dimesso dalla clinica. È possibile che voglia uccidere quel figlio che ha tradito il suo piano, inserendosi nella vita sociale e imparando a parlare la lingua di tutti. Occorre proteggerlo, e questo è il compito che la moglie di Peter affida a Quinn. Quinn comincia a pedinare Stillman padre. Il vecchio fa ogni giorno la stessa cosa: va per le strade di una certa zona di New York, raccoglie da terra e mette in un sacco piccoli oggetti rotti, inutilizzabili: spazzatura. Stillman senior annota ogni giorno i percorsi e le zone da perlustrare su un taccuino rosso. Quinn dopo un po’ si stanca di pedinarlo; non capisce il suo comportamento, decide di parlare con lui. Stillman senior gli dice che vuole scrivere un nuovo vocabolario in cui ogni parola abbia un significato esatto, indichi con precisone l’oggetto di cui è il nome. Per esempio, se un ombrello è rotto e non lo si può più usare per ripararsi dalla pioggia, non si può più usare neanche, per designarlo, la parola ombrello, che indica un oggetto che ripara dalla pioggia. Bisogna inventare un’altra parola, che dica che è un ombrello ma rotto, che non assolve più il suo compito. Questo vale per tutti gli oggetti e per tutte le parole. Così raccoglie ogni giorno oggetti senza nome, e alla sera inventa per questi oggetti un nome e lo scrive nel suo dizionario.

    Il vecchio ad un certo punto sparisce, Quinn non lo trova più. Decide allora di appostarsi in un cassonetto davanti alla porta di Stillman iunior, in modo da controllare 24 ore su 24 che il padre non vada a fargli del male. In pochi mesi si riduce a un barbone. Quando finisce i soldi e torna a casa, si specchia nelle vetrine e non si riconosce, trova il suo appartamento affittato a un’altra persona, svuotato da tutte le sue cose. Va a casa Stillmann e trova vuota anche questa. Si rifugia in una piccola stanza, si spoglia, butta i vestiti da barbone, dorme. Il mattino trova un vassoio con del cibo, la cosa si ripete nei giorni successivi. Pensa al suo nome, Daniel Quinn, e che le sue iniziali sono le stesse di Don Quijote. Scrive, Quinn, sul suo taccuino rosso, ma non cose che riguardano l’indagine. Scrive del cielo, dei sassi. Del mondo di fuori.

    L’epilogo è sorprendente: entra in scena un personaggio, che dice io, e ci rendiamo conto che abbiamo letto fin lì una storia raccontata da un altro personaggio, che parla in prima persona e di cui non si sa il nome. Dice, questo personaggio, di tornare da un viaggio in Africa; parla con Paul Austen, non si sa se l’autore della Trilogia o quello finzionale del racconto. Il personaggio senza nome rimprovera Austen di avere trattato malissimo Quinn. Auster dice che è vero ed è per questo che ha bisogno di lui. Gli dice che non lo trova più, Quinn, che non c’è nel suo appartamento, che non risponde al telefono. Vanno a cercarlo, nella casa di Stillman, ma trovano solo il taccuino rosso. Auster lo dà a Quinn, gli dice che deve tenerlo lui. Il personaggio senza nome conferma che da quel momento Quinn sarà solo suo e loro due non saranno più amici. E che nel taccuino c’è solo metà della storia.

    Posso fare delle ipotesi su chi sia questo personaggio che parla in prima persona. Potrebbe essere, secondo me, William Wilson, ma lettori e critici hanno avanzato ipotesi diverse. Provo a rintracciare i temi di Città di vetro. Le parole, le storie, il destino: Stillman iunior ha imparato a parlare da grande e parla in un modo strano (rubato a Gombrowicz di Trans – atlantico?) che non sa tenere conto dei registri linguistici, delle metafore, dei significati denotativi delle parole. Stillman senior vuole che il figlio parli con la voce di Dio. Da vecchio vuole inventare lui una lingua assoluta, creando un dizionario in cui ad ogni oggetto corrisponda esattamente una parola e ad ogni parola un oggetto. La storia che Quinn scrive alla fine, prima di sparire, parla di natura e universo, non del suo pedinamento che gli è stato affidato, ed è scritta solo a metà. Come dire: è impossibile usare le parole che abbiamo a disposizione per mettere a fuoco e raccontare la storia che abbiamo dentro e che vogliamo lasciare andare perché ci tormenta. Non ci sono le parole per farlo e forse stiamo anche cercandola, quella storia, nel posto sbagliato, nelle cose che ci sono successe in questo mondo. Dobbiamo cercarla invece nella natura, nell’universo mondo, che ha già scritto il destino di tutti.

    La ricerca della propria identità, il doppio: Stillman è il doppio di Quinn. Quinn deve pedinarlo. Li accomuna la necessità di scrivere sul taccuino rosso, la riflessione sulle parole, il fatto che questa riflessione trascini nell’abisso, nella spazzatura del sacco di Stillman e del cassonetto in cui dorme Quinn quando sorveglia la casa di Stillman. Quando deve andarsene da quella postazione e da quella vita da barbone, Quinn non è più lo stesso: non si riconosce quando si specchia, non ha più la sua casa, non può più scrivere che di cose universali. Stillman senior è pazzo, ha anche lui perso la sua identità. Le parole che ha letto e studiato, da Il Paradiso perduto di Milton alla Bibbia, a un libro che si inventa lui per creare un fondamento alla sua teoria gli fanno partorire due sogni grandiosi e impossibili: costruire il Paradiso Terrestre nel Nuovo Mondo e costruire la lingua di Dio.

    FANTASMI

    Nel secondo racconto, Fantasmi, i personaggi si chiamano tutti come i colori. Blue, un detective, riceve l’incarico da White di sorvegliare Black. Gli fornisce tutto quello che serve, a partire da un appartamento dalle cui finestre Blue può sorvegliare Black. Black scrive sempre. Ogni tanto va a fare la spesa o una passeggiata o al cinema. Tutto qui. Blue manda i suoi rapporti a White; sono, per forza di cose, sempre più scarni, e White sembra non preoccuparsene, paga regolarmente Blue per il suo lavoro. Un po’ alla volta Blue conosce Black, gli parla, si fida di lui. Poi però scopre che Black e White sono la stessa persona. Blue comincia a diffidare di Black, a guardarlo con sospetto. Capisce che forse non è lui, Blue, che sorveglia Black, ma Black che sorveglia lui, Blue. Vuole saperne di più, sente che il suo destino lo obbligano di chiudere i conti con Black. In sua assenza va nell’appartamento di Black per rubargli il manoscritto, perché sente fortissima l’esigenza di conoscere la storia che Black sta scrivendo. Si sente male, ha tanta paura, gli sembra che quell’appartamento sia quello della sua infanzia, compresi i fantasmi che lo popolavano, afferra i fogli impilati sul tavolo e scappa a casa sua. Si accorge che i fogli che ha rubato sono i suoi rapporti. Sta male, è confuso, esce dal ruolo di pedinatore; vede dalla finestra Black nel suo appartamento, decide di andare da lui. 

    Black indossa la maschera di White e ha in mano una pistola. Vuole eliminare Blue perché non gli serve più. Gli serviva per avere qualcuno che lo osservasse, lo scrutasse, altrimenti non sarebbe riuscito a scrivere la sua storia. Adesso il gioco è finito. Blue sopraffà Black, lo uccide a calaci, si porta via il suo manoscritto. Corre a casa, lo legge. Nel manoscritto di Black c’è il racconto Fantasmi. Fantasmi è meno inter – letterario di Città di vetro. Ha molto di Poe, ancora, e del racconto fantastico. Ma i temi sono sempre quelli: i doppi che poi sono tripli, la scrittura, la ricerca della propria identità. In mezzo, trasversalmente, sempre le parole e le storie.

    LA STANZA CHIUSA

    La stanza chiusa non va raccontato, secondo me, perché è complicato e la sinossi sarebbe di difficile comprensione. E poi il lettore, fatto esperto dai racconti precedenti, può orientarsi da solo. Racconta di due amici d’infanzia, uno con più talento per la scrittura, ma anche nello sport e per altre cose, l’altro più dimesso. Il più talentuoso sparisce, non dà più notizie di sé. L’altro prende il suo posto: sposa sua moglie, fa pubblicare i suoi libri, fa da padre al bambino, va a trovare la suocera. C’è ancora, con ogni evidenza, il tema del doppio. La stanza chiusa del titolo è un omaggio, ancora una volta, a Poe, ma nel racconto di Auster la stanza è nella testa del protagonista, oltre che una stanza fisica, piena dei pieni e dei vuoti che caratterizzano le storie di amicizie, di proiezione nell’altro, di invidia e di solitudini. Per capire cosa ci sia in quella stanza, ancora un quadernetto rosso, opera dell’amico scomparso. Incomprensibile, di parole in liberà. Il protagonista ne strappa e ne straccia una a una le pagine. Ormai i temi si vedono con facilità: il doppio, l’assenza di parole adatte, le verità del destino già scritto e l’insignificanza delle scelte dei personaggi quando cercano di dare una direzione alle loro vite. La difficoltà di scrivere e lasciare andare le storie.


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