L’aria fredda sembrava che l’autunno mi desse baci sulla guancia con la barba che pizzica, quasi fosse innamorato di me

di piastrelle sexy

L’aveva vista alla festa nella casa in campagna. Era arrivata solo a quell’ora. Era vestita con tutti quei colori vivaci nonostante fosse autunno. Ballava senza musica. P. l’aveva fissata come un gatto annoiato guarda una mosca prima di ucciderla. La festa era in quella fase calante in cui la gente inizia a pensare che sia ora di andare a letto. In cui la Notte inizia a toccare l’orologio come l’allenatore della squadra che sta vincendo di poco a fine partita… Nel mentre aveva girato una stufa fra gli invitati per dare il colpo di grazia –  alcuni si erano addormentati abbracciati sui divanetti – ed io ero troppo stanco per fumarla e volevo andare via. Il padrone di casa stava dormendo per terra. Gente con la pelle grigia, coperta dalla testa ai piedi da degli impermeabili, cercava cose da rubare. Avevano le tasche del cappotto piene di sigarette, bottigline di alcolici appiccicosi e avevano un asciugamano con cui avevano raccolto tutta la felicità della festa.

– L’hai vista? È bellissima.

– No, ma provaci.

– Queste cose mi fanno stare male perché durano un attimo. Non ho neanche voglia di iniziarla.

Stavamo fermi alla fermata dell’autobus poco più in là della casa. Soli. Io e P.. Tardissimo. Stavamo sotto a un lampione. L’arancione che usciva dal lampione sembrava un bicchiere che ci volesse intrappolare come cimici. P. era a metà di una sigaretta. Il fumo sembrava non uscire dal cono di luce e l’aria diventava soffocante come a stare chiusi in uno sgabuzzino. Il tempo non andava avanti. L’autobus notturno non arrivava. Le ore si muovevano come un gruppo di vecchiette col deambulatore che ti stanno davanti quando hai fretta. P. aveva appena dichiarato che doveva farmi una confessione, ma stava zitto. Fissava il fumo come quando si guarda qualcuno per leggergli nel pensiero. Nell’attesa che P. parlasse tirai fuori il telefono per vedere se mi aveva scritto qualcuno. Nessuno. Iniziai a camminare avanti e indietro davanti alla panchina della fermata senza uscire dalla luce del lampione: ero un pesce tropicale che nuotava dentro un cono di luce arancione.

– A volte mi scopo gli animali.

– Ok.

Non me ne fregava nulla della confessione di P.. La verità era poi questa. Avevo una fretta tremenda di tornare a casa. Volevo tornare a casa. Avevo bisogno di tornare a casa. Avevo delle aritmie al cuore perché era troppe ore che ero fuori e l’autobus non arrivava. Mi sembravano passati sei mesi da quando avevamo iniziato ad aspettare.

– È che gli animali sono diversi dagli uomini.

– Fin lì ci arrivavano tutti.

– Mi sembra una cosa più ingenua, meno cosciente, più naturale.

– Vecchio, ti stai scopando degli animali…

P. era evidentemente a disagio per la mia incomprensione. Non potevo farci nulla. Non ero in vena di comprensione, ero in vena di tornare a casa. Alla svelta. Tra l’altro la mia agitazione era alimentata dal fatto che avevo anche smesso di fumare da qualche giorno – nel senso che avevo deciso di non fumare mai più – e, la sigaretta nella bocca di P., mi faceva stare male come una donna lasciata da poco appoggiata sulla bocca di un altro uomo.
Il cuore batteva il tempo come un batterista che ha un’aritmia al cuore e P. tornò a baciare il mozzicone deluso. Cercava scandalo o comprensione, non aveva trovato né l’uno né l’altra. Si appoggiò al lampione. Era tornato il Silenzio. Il Silenzio si sdraiò sulla panchina della fermata e si coprì di giornali. Diedi un occhio alle notizie sui fogli: avevano distrutto una città in Medio Oriente e l’avevano ricostruita uguale grazie ai computer… non si poteva cambiare nulla e tutto era immobile come alla fermata dell’autobus. DAVANTI ALLA STORIA DELL’UMANITÀ C’ERA UNA VECCHIA CHE ZOPPICAVA E, OGNI VOLTA CHE MORIVA, QUALCHE MEDICO DEL CAZZO LA RESUSCITAVA. 
Mi misi a sedere per terra per vedere se mi passava l’ansia di andare a casa e le aritmie. Fissai tutta la piattezza della campagna che ci circondava. La piattezza ci circondava come un esercito che ci volesse far morire di fame. Digrignai i denti contro la campagna per farle paura.

Nonostante mi fossi seduto avevo ancora l’ansia di andare a casa e le aritmie. Avevo così tanta fretta che sentivo il bisogno di correre, muovere le mani e agitare le braccia: volevo ballare come un corpo percorso da corrente elettrica. Sentivo come se la mia pelle fosse stata il bozzolo di una farfalla fatta di Fretta. Sotto l’epidermide si agitava una pupa di Voglia di Correre che mi faceva il solletico da dentro.
Mi alzai in piedi e tornai a camminare avanti e indietro dentro il cono di luce per vedere se mi passava l’ansia di andare a casa e le aritmie. P. gettò il mozzicone contro il buio quasi a vedere se fosse possibile uscire fuori dall’arancione.

– Domani cosa fai?

– Niente.

P. tirò fuori un’altra sigaretta. La regola che ‘se ti accendi una sigaretta alla fermata dell’autobus arriva subito l’autobus’ quella notte non funzionava. Guardai l’orologio. L’autobus non era in ritardo. Era il tempo a essere in ritardo. Guardai il cielo. La Luna era sottile e sembrava un sorriso; sembrava che il Buio mi deridesse. Non si vedevano stelle. Era l’inquinamento luminoso: la gente accendeva le luci infischiandosene della portata ecologica della cosa. Si accendevano luminarie natalizie, insegne luminose del kebab, donne al neon per indicare sexy shop e tutti quanti i fumi di queste luci andavano a soffocare il cielo e uccidevano le stelle: shuttle spaziali vagavano per la volta celeste trascinando reti e raccoglievano solo stelle morte soffocate come gabbiani dal petrolio. L’aria che scendeva giù dallo spazio era irrespirabile per colpa delle luci sporche che mandavamo lassù. Quando andavi al ristorante giapponese e mangiavi le stelle crude nel sushi, mangiavi stelle con il mercurio dentro.

– Ma secondo te l’autobus arriva? Se andavamo a piedi eravamo già a casa.

– P., se vuoi puoi andare a piedi, vai a piedi… ormai ho investito troppo tempo in questa cosa per non farla fino in fondo. Ho fretta e ho la necessità psicologica di tornare a casa con l’autobus. Hai presente quando ti strappi un’unghia del piede con le mani e arrivi al punto in cui non sei più in grado di strappartela con le dita e sarebbe necessario usare le forbici, ma ormai non si può più tornare indietro perché hai iniziato a farlo con le mani e devi finire di farlo con le mani e ti viene la claustrofobia perché sei incastrato in una situazione da cui non puoi uscire? No? Be’, però siamo nella stessa situazione.  

P. tornò in silenzio. Io fissai l’aria. C’era una falena. La falena iniziò ad andare verso la luce del lampione come una donna che ha fretta di entrare in casa in una notte buia.
Abbassai lo sguardo. Tornai a sedermi per terra per vedere se mi passava l’ansia di andare a casa e le aritmie. Poi, improvvisamente, iniziai a notare che la mia sciarpa fucsia si stava mettendo in posizione verticale. Si era messa dritta come la prima scimmia che aveva iniziato a camminare su due piedi. La mia sciarpa si sentiva più intelligente delle altre sciarpe. Poi iniziarono a levitare attorno a me dei sassolini. P. vide la sua sigaretta uscirgli dalla bocca, la seguì con lo sguardo e si ritrovò a guardare verso l’alto. Alzai la testa anche io. Sopra di noi un disco volante ci voleva rapire in cielo. Iniziò a sfilarmisi la giacca, lo zaino, la cintura. P. sentì il suo pacchetto da venti uscirgli dalla tasca e l’orologio uscire dal braccio. Tutto cercava di levitare tranne noi. Io ero emozionato, ma non avevo paura. P. fissava il cielo con le pupille che sembrava volessero aggrapparsi alla luce per salire sul disco a vedere meglio. Poi, improvvisamente, tutto si spense. Io e P. eravamo rimasti giù vestiti solo con i maglioni. Nella luce arancione ci caddero in testa i portafogli con i documenti senza i soldi. Gli alieni ci avevano derubato, ma erano dei galantuomini e non volevano farci rifare la patente. Guardai P. cercando spiegazioni. Lui mi chiese se sapevo cosa se ne facevano gli alieni dei nostri soldi.

Mi tornai ad alzare per vedere se mi passava l’ansia di andare a casa e le aritmie. Adesso faceva più freddo. L’autobus continuava a non vedersi. Tutto era fermo, tutto era immobile, nonostante tutto quello che era alla fermata dell’autobus avesse voglia di spostarsi il più velocemente possibile. P. aveva anche una voglia terribile di parlare. Uno in grado di leggere nel pensiero l’avrebbe capito al volo.

– Hai mai visto un cinese fare benzina?

– No.

– È strano no?

– Già.

– Secondo me i cinesi non fanno benzina perché non usano le macchine per spostarsi.

– E cosa usano?

– Secondo me i cinesi sono un unico cinese che possiamo vedere in più forme. È per questo che i cinesi sembrano tutti uguali: sono tutti la stessa persona che è contemporaneamente ovunque. È per questo che non hanno bisogno di spostarsi: sono dappertutto.

– Può essere.

– Non lo trovi pazzesco? È un po’ come se la Cina fosse un unico essere pensante, la cosa di più simile a un dio che tu possa vedere sulla terra. Un gigantesco essere molteplice che pensa, respira e fa contemporaneamente Tutto.

– P. non ti contraddico.

– Pensa alle conseguenze: vai da una massaggiatrice cinese e ti fai fare un massaggio con happy ending e le chiedi se, per favore, può cantare nel mentre il jingle di una pubblicità della cedrata; poi vai in borsa a discutere con un magnate cinese dell’acquisto di occhiali e lui inizia a canticchiare la canzone della cedrata. Te inizi a sentirti leggermente a disagio ed eccitato e pensi sia un caso e inve

Improvvisamente, P. smise di parlarmi. Non mi guardava neanche più in faccia. Non me ne accorsi subito. Era come se stesse guardando me, ma poi capì che stava guardando dietro di me. Fece cadere il discorso per terra che si ruppe come un uovo. Per un attimo tenne la bocca in fessura per lo stupore.

– È arrivata lei!

– Lei chi?

– Quella della festa.

Mi girai. Non vidi nulla. Poi P. mi passò davanti. Si muoveva in una direzione precisa. Si avvicinò a una farfalla. Aveva dei colori vivaci nonostante fosse autunno. La farfalla stava morendo, si vedeva dal volo zoppo che faceva nell’aria. P. le si avvicinò. Le disse una frase stupida di quelle che si dicono per attaccar bottone tipo ‘Lei sa che ore sono?’. La farfalla forse gli aveva detto qualcosa. Poi, vuoi per i fumi della festa, vuoi per una volontà di godere della vita fino all’ultimo, la farfalla baciò P. e P. la baciò. Poi la farfalla cadde morta sull’asfalto. P. era tristissimo. I suoi occhi erano pieni di lacrime come una pozzanghera piena in cui sta continuando a piovere dentro. P. si mise a fissare la notte fuori dal cono coi suoi occhi a pozzanghera mentre la Tristezza lo abbracciava come una mamma fa con un bambino che si fa male. Io mi misi a fissare l’orizzonte sperando comparisse l’autobus, ma tutto era fermo, tutto era immobile nonostante tutto quello che era alla fermata dell’autobus avesse voglia di scappare il più velocemente possibile. Mi misi a sedere per vedere se mi passava l’ansia di andare a casa e le aritmie.

L’autore

piastrellesexy è una pagina social che apre nel 2018 su Facebook con la vocazione per il textposting. col passare degli anni ha aderito a diversi progetti quali il teatropostaggio da un milione di dollari di giacomo lilliu e pierlorenzo pisano, radio attiva nonantola, sbongo podcast, sul serio rivista, ghafunken fanzine. non usa praticamente mai le maiuscole (salvo copia e incolla) e ama la maionese, le sigarette e i bar gestiti dai cinesi.


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