Gérard Genette applicato a Lady Oscar

di Valentina Durante

Iniziamo con un sunto della teoria: Gérard Genette intende per “soglia” l’insieme delle produzioni verbali e non verbali che accompagnano il testo prima, contestualmente e dopo la sua diffusione: nome dell’autore, titolo, dediche, epigrafi, prefazione, note, intertitoli, illustrazioni, insomma tutto ciò che è intorno al testo nello spazio del volume stesso e che Genette chiama perciò “peritesto”; ma anche interviste, conversazioni, qualsiasi forma di comunicazione pubblica e privata (oggi: i social) che si trovano, almeno nella loro versione originaria, all’esterno del volume e che Genette definisce perciò “epitesto”. Peritesto più ipotesto formano il paratesto ed è attraverso di esso che “il testo diventa libro e in quanto tale si propone ai suoi lettori e, in genere, al pubblico.” Si tratta appunto di una soglia che non solo permette l’accesso al testo ma lo condiziona data la sua natura funzionale ed eteronoma (è cioè dal testo stesso che la sua funzione viene normata). “Ridotto al suo solo testo” si chiede Genette, “e senza alcuna istruzione per l’uso, come leggeremmo l’“Ulysses” di Joyce se non si intitolasse “Ulysses”?” Non lo sappiamo, ovviamente. Possiamo al limite (sul limite, sulla soglia) immaginarcelo, ma non possediamo il caso di un “Ulysses” uscito con il titolo di – che so – “A zonzo per Dublino”. 

In realtà, di queste simulazioni che un pubblicitario chiamerebbe “A/B test” il mondo delle narrazioni è pieno: esse si verificano allorquando un prodotto editoriale o cinematografico venga proposto in traduzione su un mercato diverso da quello originario. Fenomeno più frequente con i film che con i romanzi, proprio per la presenza quasi simultanea di soglie diverse offre delle suggestioni utili per riflettere sulla relazione che viene a crearsi fra un testo e i suoi paratesti. Vi propongo un disimpegnato ma spero non risibile esempio con un classico del cinema di animazione giapponese, oltre che cartone-culto della nostra infanzia (o almeno di chi come me è nato negli anni Settanta): “Lady Oscar”. Magari lo avete visto, rivisto e stravisto. Magari ancora oggi vi inchiodate davanti allo schermo quando alla tivù passano qualche replica. Magari il 14 di luglio pubblicate sulle vostre bacheche l’immagine di Oscar a spada sguainata che incita all’assalto della Bastiglia. Quale che sia il caso, sapreste dire con certezza chi è il personaggio protagonista della serie?

Oh perdinci, si risponderà: il protagonista di “Lady Oscar” – anzi: la protagonista – è Lady Oscar, ossia Oscar François de Jarjayes. E in effetti, chi potrebbe darvi torto? Ma la questione non è così semplice. Prenderò in esame in questa mia brevissima analisi due soglie: il titolo e la sigla iniziale, limitandomi – sulla scorta di Genette – alla sola parte testuale. Del titolo già si è detto: è tematico nel senso che esprime un elemento dell’universo diegetico dell’opera enfatizzando un solo personaggio – Oscar – che viene dunque letto come oggetto prioritario del narrare e soggetto attorno al quale la trama si sviluppa; il protagonista, appunto. Consideriamo ora la prima strofa della sigla cantata da I Cavalieri del Re:

Grande festa alla corte di Francia, c’è nel regno una bimba in più

biondi capelli e rosa di guancia Oscar ti chiamerai tu.

Il buon padre voleva un maschietto ma ahimè sei nata tu

nella culla ti han messo un fioretto, lady dal fiocco blu.

Questa prima soglia ci dice due cose:

1) che la serie si rivolge a un pubblico infantile; lo intuiamo dal passo fiabesco, retto da una terza persona onniscente e con un andamento affabulatorio, da “c’era una volta”, oltre che dalle scelte lessicali: parole semplici, per quanto anticate ad esempio dal troncamento, adoperate nella loro accezione letterale. 

2) che la narrazione verrà incentrata proprio su Lady Oscar, che è protagonista della sigla tanto quanto lo sarà della serie animata.

“Lady Oscar”, andata in onda nel suo primo passaggio dal 1º marzo al 19 aprile 1982 su Italia 1, è l’adattamento nostrano di una serie giapponese prodotta nel 1979 dalla Tokyo Movie Shinsha sotto la direzione di Tadao Nagahama e Osamu Dezaki, la quale serie è a sua volta l’adattamento di un manga scritto e disegnato da Riyoko Ikeda, serializzato dal 21 maggio 1972 al 23 dicembre 1973 sulla rivista “Margaret” di Shūeisha e raccolto poi in nove volumi “tankōbon”. Nella loro versione originale, sia serie animata che manga si intitolano “Versailles no bara”, ossia “Le rose di Versailles”. In realtà, poiché nella lingua giapponese il sostantivo non presenta di norma distinzione di genere e numero, lo potremmo anche tradurre con “La rosa di Versailles”, ma a questo riguardo l’autrice è stata chiara in diverse interviste (a loro volta epitesti): il significato è plurale e la metafora (rosa-donna) va a ricomprendere tutte le donne di cui si parla nella narrazione: naturalmente Oscar, ma anche Maria Antonietta, la Contessa di Polignac, Jeanne de la Motte-Valois, Madame Du Barry, Charlotte de Polignac e Rosalie. Per quanto nella serie animata lo spazio destinato al personaggio di Oscar sia decisamente maggiore che non nel manga, il fatto che la soglia rappresentata dal titolo sia “Le rose di Versailles” anziché “Lady Oscar” crea nei telespettatori un orizzonte di attesa ben diverso.

Veniamo alla sigla. L’opening è composto, come l’intera colonna sonora, da Kōji Makaino ed è interpretato da Hiroko Suzuki. S’intitola “Bara wa utsukushiku chiru” (Le rose muoiono in bellezza). Ecco le prime due strofe:

草むらに 名¬も知れず  

Se fossi un fiore senza nome

咲いている ¬花ならば  

che cresce in mezzo ai campi,

ただ風を 受¬けながら  

mi accontente¬rei di ondeggiare,

そよいでいれ¬ば いいけれ¬ど  

investita dal vento.

私はバラのさ¬だめに生まれ¬た  

Ma sono nata con il destino delle rose,

華やかに激し¬く生きろと生¬まれた  

sono nata per vivere una vita appassionata e sgargiante.

バラはバラは¬ 気高く咲い¬て  

Le rose, le rose, nascono nobili,

バラはバラは¬ 美しく散る¬

Le rose, le rose, muoiono in bellezza

Ora, non sarà una poesia del “Man’yōshū” ma si coglie un’ambizione diversa rispetto a quella dei Cavalieri del Re; difficilmente un bambino potrebbe trovarsi a suo agio con un incipit così intimista/confessionale che comincia introducendo una similitudine in prima persona e si conclude con una enunciazione generale retta da una metafora che parla di destino, nobiltà e morte. E infatti in Giappone la serie animata – la stessa serie animata trasmessa in Italia – si rivolgeva a un pubblico di adolescenti. 

Questo piccolo esempio applicato a una narrazione ultra-popolare ci mostra che:

– la costruzione del personaggio può partire fin dalla soglia del testo, titolo in primis;

– in tanto proliferare di liste, listoni e listini in risposta a quella chiacchieratissima del NYT, nel momento in cui si afferma di guardare solo e unicamente alla “qualità del testo” si pecca di malafede o di ingenuità. Anche i paratesti fattuali, ci dice Genette (età, sesso, prestigio e biografia dell’autore) costituiscono delle soglie attraverso le quali qualunque esperienza di lettura – piaccia o non piaccia – è costretta a passare.

Infine – codino promozionale – se siete interessati alla costruzione del personaggio soglie incluse, potete dare una scorsa al programma del corso omonimo “La costruzione del personaggio” che condurrò a partire dal prossimo 14 novembre per la Bottega di narrazione. Da qui a novembre ci stanno ancora quattro mesi, ma i posti potrebbero esaurirsi in fretta ed è saggio prendersi per tempo.

Valentina Durante, nata a Montebelluna nel 1975, è copywriter e consulente di comunicazione freelance. Fino al 2009 ha lavorato come ricercatrice di tendenze coordinando per la Camera di Commercio di Treviso un gruppo di stilisti, designer, artisti, progettisti e fotografi. Il suo primo romanzo – La proibizione – è uscito nel 2019 per l’editore Laurana. Suoi racconti sono stati pubblicati nelle riviste “Altri Animali”, “Leggendaria”, “L’ircocervo” e “Vibrisse” e nella raccolta Polittico (Caffèorchidea, 2019). Dal 2019 collabora con la Bottega di narrazione di Giulio Mozzi.

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