(Im)mobilità

di Cristi Marcì

Quella mattina il cielo era limpido e sgombro di nuvole, dalla finestra della cucina un sole settembrino illuminava imperterrito i tetti delle case di fronte, le quali per tutta risposta esibivano con orgoglio scadente gli ultimi colori rimasti. Sin da piccolo quello spazio antico dai fornelli un po’ guasti e le pareti un po’ scrostate era stato il suo rifugio, la sola postazione dove i sogni e i progetti si erano tramutati in viaggi e parole, le quali a sua insaputa tessevano trame sconosciute: pronte soltanto ad essere scoperte.

Affacciato al balcone della cucina stile anni Cinquanta i panni stesi sui fili metallici gli restituivano un profumo di lavanda che si univa indissolubilmente a quello della salsedine proveniente dal porto, creando un’alchimia che ogni volta faticava a scolpire e a trattenere nelle sue narici; ma che ad ogni suo ritorno riesumava memorie passate dove un velo di nostalgia posava silente la sua gelida mano sopra agli occhi. Non si era mai rassegnato all’idea che qualcosa in quella città potesse ancora cambiare, perché ogni volta che tornava i suoi piedi lo portavano tra le arterie di una metropoli che per miracolo tentava di farsi strada nel mondo con i suoi riti, i suoi odori, i suoi lamenti e qualche sotterfugio di troppo.

Passeggiare era sempre stato infatti l’antidoto a una stasi dalla quale pareva impossibile schiodarsi, e che per miracolo restituiva passo dopo passo l’illusione di una metamorfosi che di approdare sulle rive dell’isola proprio non ne voleva sapere. Perché la corrente del mare da secoli seguiva solo e soltanto un’unica direzione. Una volta sceso nell’androne il suo sguardo aveva incrociato la buca delle lettere con tutte le targhe dei condomini che nel giro di vent’anni avevano posto le fondamenta per fare di quel posto un luogo sicuro. Tra queste una in particolare gli ricordava come lancette invisibili seguissero una loro logica; il cognome Bassano segnava difatti un’equazione dove passato e presente facevano a pugni per rinnovare un precario equilibrio entro cui il germe della fiducia apriva al contrario nuove crepe difficili da cancellare, ma che nel tempo avrebbero delineato la mappa di ogni suo trascorso.

Uscito per strada il Borgo Vecchio lo investì con tutte le sue numerose peculiarità, mentre un cordone ombelicale che non era mai riuscito a tagliare, continuava a crescere dentro di lui corrodendo ogni sensazione che ad ogni passo tramutava invisibili molecole in forme e colori variopinti. Restituendogli un vissuto che non smetteva mai di voler percorrere, calpestare e a volte perfino evitare. Perché in quella città le cose non erano cambiate affatto e se avessi voluto scoprirla avresti dovuto semplicemente adeguarti alla sua natura irremovibile.

Dal quartiere della sua infanzia si era diretto verso Piazza Garibaldi per inoltrarsi nella fitta rete di negozi e bancarelle che dal teatro Massimo proseguivano lungo via Maqueda, dove il profumo dello street food si mescolava a quello delle altre culture provenienti dall’India, dal Bangladesh per poi scontrarsi con quello dei carretti siciliani trainati dai cavalli. Per quello che ricordava quei nobili animali venivano da sempre piegati dalla mano di chi al posto di rispettarli li sfruttava soltanto per gonfiarsi le tasche grazie ai turisti che affollavano le strade e che rendevano Palermo, a detta di molti, la citta più bella del mondo. Per lui invece era e rimaneva soltanto una donna illusa dal tempo, convinta che passato e presente potessero ancora donare una rara bellezza, la quale di contro assumeva il volto di un sudiciume che quotidianamente si cercava a più non posso di coprire col cibo e con tutto quello che veniva spacciato per rituale.

Mentre si dirigeva verso i Quattro Canti si era trovato a pensare che era proprio questo a renderla unica e insostituibile e che per quanto partisse e tornasse era ciò che più di ogni altra cosa al mondo gli scatenava puntualmente quella maledetta mancanza. Non poteva nulla contro quella donna insostituibile dalla quale una volta scappato sapeva per certo che sarebbe tornato. Era così ogni volta che tornava nella sua Palermo, martoriata da un’indifferenza che soltanto il sole era in grado di camuffare illuminandone un corpo distrutto e la bocca ricolma di un passato ingombrante, ma che a nulla sarebbe servito per cambiare il corso della sua storia.

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