a cura di Telegraph Avenue

E se il Nobel per la letteratura lo vincesse Stephen King? Vi pare possibile? Nessun romanzo di King ha vinto il Pulitzer o il National Book Award, i due premi americani più prestigiosi. Figurarsi l’ipotesi del Nobel. Come mai? L’esclusione di King da questi circuiti nasce da un antico riflesso condizionato dell’establishment culturale: l’idea che esista una gerarchia tra i generi narrativi, e che la cosiddetta “letteratura alta” debba restare immune dall’immaginario popolare. Il caso King è emblematico. King ha costruito un corpus narrativo di dimensioni impressionanti, coerente nella sua visione e stratificato nella sua lettura del mondo. Eppure, non sono pochi coloro che continuano a collocarlo ai margini del canone contemporaneo, come se la sua popolarità, la sua falsa identità Horror, perché è falsa, invalidasse in partenza qualsiasi valutazione estetica.
È un cortocircuito critico che si regge su una dicotomia ormai esausta: quella tra letteratura “di intrattenimento” e letteratura “seria”. Ma l’opera di King non si lascia contenere in questi recinti. Sotto la superficie di mostri, possessioni e universi paralleli, pulsa un’indagine lucida e spietata della cultura americana. King ha raccontato forse meglio di chiunque altro l’infanzia come luogo di trauma, la famiglia come teatro di violenza sotterranea, la provincia come scenario di rimozioni collettive. Ha dato forma narrativa a ciò che l’America preferisce non vedere: la persistenza del male nel quotidiano, la fragilità delle istituzioni, la paura come strumento di controllo. It, Shining, Pet Sematary, 11/22/63, The Stand: sono titoli che hanno segnato l’immaginario popolare, certo, ma sono anche romanzi che parlano di colpa, tempo, fallimento, morte, potere. King non è uno scrittore Horror, semmai piega l’horror a una funzione simbolica, mettendolo al servizio della memoria collettiva.