di Cristi Marcì

Ho sempre odiato il Wagon saloon. Sorge fra l’emporio di Kenny e la conceria dei fratelli Mason lungo la via principale, dove la terra del Texas ti trascina verso i pungenti cactus del Messico. Finora nessuno è riuscito a domare questa cittadina selvaggia, neppure quel grassone dello sceriffo Bobby che alla vista di un serpente a sonagli ha gettato per terra stella e cappello per darsela a gambe levate il primo giorno di lavoro.
Quando si è presentato con quel ridicolo gilet color cammello a bordo di una carovana inzaccherata di polvere la gente di Wagon City aveva capito subito che sarebbe durato il tempo di uno sputo. Era un po’ troppo sovrappeso per quel ruolo conferitogli dal suo lontano cugino Lizzy, sindaco della città. Le bistecche e il gelo del Montana lo avevano trasformato in uno di quei bisonti cacciati dai Sioux oltre la Death Valley.
In sella a Hector, un gigante nero che non teme la fatica mi sento sempre al sicuro, specialmente ora che la luna continua a salire in cielo e le stelle si burlano dall’alto dei confini segnati dalla cupidigia dell’uomo. Il nitrito del mio fedele Shire è la sola ninna nanna che assieme ai suoi occhi mi svela un mondo dove il bene non deve piegarsi a nessun imperativo. A quest’ora le uniche luci di Wagon rimaste accese sono sempre quelle di Enrica del Bosch altrimenti conosciuta come il Diablo di Wagon City: di notte è un angelo ma di giorno può essere il tuo peggior incubo.

E con una strizzatina d’occhio mi ha chiesto:
“La destra o la sinistra?”
Quando ho messo piede nel suo locale, frequentato da giocatori d’azzardo e sgualdrine d’alto borgo emigrate da Nuevo Leòn in cerca di fortuna, le ho chiesto ingenuamente il motivo di quel bizzarro nomignolo e per tutta risposta mi ha puntato una Colt al di sotto della cinta di cuoio.
“A me servirebbero entrambe.”
“Qual è il tuo nome, straniero?”
“Jimbo.”
Aveva inarcato il sopracciglio sinistro alla ricerca di maggiori informazioni:
“E?”
“Jimbo The Kid,” ho risposto togliendomi il cappello.
“Per la miseria non sarai mica il bambino sopravvissuto alla tribù dei Sioux? Nessuno è mai tornato vivo dalla Death Valley.”
Scrollai le spalle tenendo d’occhio quel cannone di ferro puntato un po’ troppo in basso.
“E cosa ci fai nel mio saloon, Jimbo?”
Avevo tutti gli occhi dei clienti puntati addosso, c’era chi mi sorrideva incuriosito e chi invece avrebbe volentieri portato la mia carcassa fuori da quel posto, così le sussurrai all’orecchio:
“Sono venuto per portarti via da qui, Nokomis.”
“C-come sai il mio vero nome?” chiese sorpresa facendo cadere quel ferro vecchio sul parquet di legno.
“Tua sorella Shawnee, figlia del gran capo della tribù Lakota, mi ha cresciuto sin da piccolo dopo che il nostro villaggio era stato bruciato dalla banda dei fratelli Lobos. Quei barbari volevano liquidare gli ultimi Sioux della zona, ma hanno commesso un solo errore: quello di lasciarci in vita.” Mentre raccontavo quell’aneddoto sui nostri trascorsi avevo percepito un brusio dal fondo della sala, dove la lingua dell’Ovest si mischiava con quella del Sud.

“Sergio e Vincent Lobos sono famosi per aver contaminato queste terre con il sangue degli innocenti, garantendo a chiunque li seguiva qui in America un futuro radioso, piegando però le loro speranze al servizio dei loro loschi affari: gli stessi che consumano l’anima e il corpo delle vostre donne al piano di sopra.”
Nokomis iniziò a tremare per l’incredulità e la paura che il mio racconto le aveva appena evocato e mentre la prendevo per mano per condurla fuori da quell’inferno sullo specchio del bancone nascosto dietro un Glenmorangie, due uomini nascosti sotto un sombrero si alzarono di scatto ribaltando il tavolo con sopra birra e fagioli per poi puntarmi al petto due Smith & Wesson.
“Bene bene, gringo, ci hai scoperto. Tu puoi andare lurido indiano ma la puta è nostra e di nessun altro.”
A differenza di Vincent, basso e tarchiato, suo fratello Sergio era alto e magro, con due baffi da tricheco che raffiguravano il prototipo messicano che mi ero sempre raffigurato dal punto più alto della Death Valley.
“La puta esta aqui gringo, entiende…”
Non aveva avuto neanche il tempo di manifestare le sue intenzioni che avevo estratto dal taschino della mia giacca scamosciata due frecce piumate dalla punta avvelenata, prontamente lanciate all’altezza delle loro clavicole.
“Jimbo ma che diavolo…?” chiese Nokomis mentre quei due si dimenavano sul pavimento in preda alle convulsioni e rigurgitando schiuma bianca dalla bocca.
“Veleno di Crotalo,” dissi voltandomi verso di lei.
“Da quello che ho visto, il vecchio Bobby aveva le sue buone ragioni per darsela a gambe.”
Tolsero per sempre il disturbo in pochi minuti, il veleno aveva fatto effetto e io il mio dovere. Nel frattempo, era sceso un silenzio tombale. Dal piano di sopra si erano affacciate Mindy, Cindy e Lola le tre ragazze che a qualunque ora del giorno ospitavano chiunque avesse un dollaro nelle mutande in cambio della loro compagnia.
Una volta spiegato il foglio recante la taglia di 5000$ pendente sulla testa di quei due bifolchi, andai fuori per inspirare a pieni polmoni l’aria della sera. Così dopo aver chiamato col mio insolito fischio Hector, io e Nokomis montammo in sella alla volta della Death Valley.
“Perché ci hai messo così tanto Jimbo?”
“Per poterti salvare, la mia anima non doveva essere contaminata della vendetta.”
Mentre procedevamo sotto la volta stellata verso la nostra antica tribù dei Lakota mi chiese se non sentissi la mancanza dei miei genitori Opa e Koko, che avevano perso la vita venti lune addietro dopo che il nostro villaggio era andato distrutto.
“Li vedo sempre la notte quando la luce del giorno finalmente tramonta per illuminare i volti dei nostri antenati,” risposi stringendo la collana adorna di piume. Quella sera fu l’ultima volta che attraversai l’arida cittadina di Wagon City e come spesso sentivo dalla cima più alta della Death Valley, dove era accampata la tribù che mi aveva cresciuto, non mi sarebbe mancata.
