di Terry Passanisi

Se ci lasciamo sedurre da un certo punto di vista (che tanto ci piace), lontano un secolo e mezzo e proposto dal Sunday Telegraph di Londra, Charles John Huffam Dickens è a tutti gli effetti “L’uomo che ha inventato il Natale”, nel senso stretto in cui oggi lo intendiamo. Di certo, Dickens deve aver convinto i suoi contemporanei più ricettivi che sia stato lui a inventarlo; non il Young England Movement di Benjamin Disraeli o gli Oxford’s Puseyites, i quali avevano ripristinato l’importanza della celebrazione cristiana, visto che – causa anche l’immigrazione di massa nella capitale, parallelamente alla rivoluzione industriale – nella Gran Bretagna della seconda metà del XVIII secolo era andata man mano in declino. Paul Davis nel suo The Lives and Times of Ebenezer Scrooge (1990) racconta dell’aneddoto narrato da Theodore Watts-Dunton, nel 1870. Mentre stava scendendo lungo Drury Lane, nei pressi del mercato di Covent Garden, il 9 giugno dello stesso anno, a Dunton era giunta all’orecchio l’esclamazione di una venditrice di strada, di estrazione cockney*, a proposito della notizia della morte del grande scrittore: “Dickens crepato? Quindi c’ha lasciato le penne pure Babbo Natale?”
Il fatto è piuttosto semplice da intendere: nessuno come Dickens, più di chiunque altro, fu in grado di far rivivere le tradizioni natalizie che a loro volta erano, a grandi linee, morte e sepolte.
Nonostante Dickens avesse celebrato la data ufficiale della nascita del Redentore in numerose opere, fu in A Christmas Carol, pubblicato il 19 dicembre del 1843, che ristabilì i costumi di Natale della Olde England e che fissò l’immaginario della stagione natalizia decorando le ambientazioni esterne con venti ghiacciati e neve copiosa, e quelle interne con vin brulé, stufato di tacchino e calore familiare a profusione. Originario di una famiglia numerosissima, ma non benestante, Charles Dickens utilizzò di continuo nelle sue opere le proprie memorie idealizzate del Natale, le quali non possono che andare di pari passo alle riunioni sotto uno stesso tetto di tutti i componenti di una famiglia, Natale che dev’essere “intriso e coccolato nei godimenti del focolare, degli affetti, del calore umano e di quelle speranze riposte” in giochi come la Tombola o il Mercante in fiera**, entrambi i quali sono (e ancora oggi da noi) giochi tipici della tradizione popolare della classe medio-bassa del padre dello scrittore. Riti e tradizioni che non fanno che compiacerci ancora e ci fanno empatizzare tutti con la gioia del sottopagato, sfruttato e maltrattato impiegato Bob Cratchit nell’istante in cui, finalmente libero dalle consegne, corre di filato verso casa per il cenone e per i giochi della vigilia di Natale.
Buone feste natalizie a tutti i nostri lettori!
* È un termine inglese che può essere riferito sia alla classe proletaria di Londra, in particolare della zona Est, sia al dialetto parlato dai suoi abitanti.
** I tipici giochi inglesi, fin dall’epoca vittoriana, della vigilia di Natale sono, invece, lo Snap Dragon e la Mosca cieca.
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