da redazione

“Prima ancora che venga presa la decisione di utilizzare la bomba, il Giappone è sul punto di crollare: la disfatta è degenerata in sbandamento generale, il paese è allo stremo e spera che a liberarlo intervenga la capitolazione. La diplomazia giapponese moltiplica i messaggi destinati all’amministrazione americana per farle sapere che è pronta a negoziare immediatamente la fine delle ostilità accettando le condizioni stabilite dal vincitore, purché la faccia sia salva. Tutti i rapporti che arrivano sulla scrivania del presidente Truman alla Casa Bianca concordano e dicono che la guerra è già vinta. Non c’è modo di farlo rinunciare a sperimentare l’arma nucleare sulla popolazione civile del Giappone. Sette scienziati coinvolti nel progetto Manhattan si schierano contro l’uso della loro invenzione, e mettono in guardia il potere americano riguardo gli effetti sconsiderati di quella decisione ormai quasi presa.
Tra gli alleati, le più alte autorità militari – i generali Eisenhower e Ismay, l’ammiraglio Leahy – disapprovano la decisione presidenziale: sanno che nessuna necessità strategica può giustificare l’impiego di un’arma che loro stessi giudicano cieca, barbara, e che farà verosimilmente migliaia di vittime. Quando però il 16 luglio l’arma segreta viene provata da qualche parte in un deserto del Sud americano, i giochi sono ormai fatti.
È con piena cognizione di causa che il presidente degli Stati Uniti dà l’ordine di commettere quello che resterà di sicuro – fino a quando qualcuno non si azzardi a fare di meglio (il meglio del peggio ndr) – il più grande crimine di guerra della Storia.”
Philippe Forest, “Muga-muchu (senza coscienza)”, 2018, ed. Nonostante