di Beatrice Dondi.
La serie kolossal su Rai Uno ha almeno un pregio: aver riportato il libro in classifica. E di questi tempi è già un buon risultato.
Cosa renda una serie televisiva internazionale, dal respiro internazionale, con uno sguardo internazionale è difficile a dirsi. Certo è che per “Il nome della rosa” l’aggettivo in questione si è speso parecchio. Quasi che fosse un lasciapassare per l’apprezzamento generalizzato, un giudizio aprioristico per promuovere un prodotto che racchiude in sé gli incastri di un puzzle da giro del mondo. In realtà può succedere che gli investimenti sontuosi non sempre facciano centro fino in fondo e nonostante la base di partenza sia quella di un romanzo che ha venduto qualcosina, la delusione a tratti si insinui come l’odore delle torce.
Frati illuminati con la luce D’Urso, un religioso silenzio invaso dagli effetti sonori, addominali in bella vista e soprattutto un doppiaggio che meriterebbe una penitenza. Nel frattempo, tra soldati e dispute teologiche, Santa Inquisizione e miniature, ci sono le riflessioni argute di John Turturro che deve portare sulle spalle la maledizione del confronto obbligato con sir Sean Connery per l’intero svolgimento. Alla fine si aspetta con fiducia che dopo otto ore di visione spunti l’assassino misterioso al grido di penitenziagite. Perché se è cosa nota che non sia stato il maggiordomo è vero altresì che uno dei piani di lettura del libro di Umberto Eco è pur sempre quello del thriller e alla lunga, nonostante gli omicidi si susseguano tra le tonache in odor di Apocalisse la mancanza di adrenalina si fa sentire e la stanchezza avanza.
Viene da pensare che Giacomo Battiato abbia preso alla lettera lo “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, e che se delle cose umane, fragili e transitorie alla fine rim[…]
via Il nome della rosa e quel che passa il convento – l’Espresso