Letteratura

“Eco: guida al Nome della Rosa” di Bruno Pischedda

A cura di Letture.org

Prof. Bruno Pischedda, lei è autore del libro Eco: guida al Nome della rosa, edito da Carocci due anni orsono: quale compresenza di generi letterari si osserva nel libro di Umberto Eco?
L’innesto maggiore riguarda il romanzo poliziesco sul tronco del romanzo storico, naturalmente. Non sarebbe una novità assoluta, considerando Agatha Christie, John Dickinson Carr o Claude Mossé; ma Eco conduce i giochi di combinazione con notevole perizia, e dopo di lui moltissimi altri si metteranno sulla medesima strada. Sotto a questo binomio fondamentale, stanno poi il racconto filosofico (conte philosophique), con rimandi al giovanile Voltaire di Zadig così come alle dispute medievali tra nominalisti e realisti; e il romanzo allegorico, o allegorico a chiave: per cui occorre riportare la più parte dei discorsi alla contemporaneità più stringente, intrisa di fanatismo e di repressione.

È da aggiungere, tuttavia, una mossa più caratteristica per Eco narratore, vale a dire il recupero a grandi arcate della tradizione che fa capo al romanzo gotico e al romanzo d’appendice, o popolare: abbazie tenebrose, monaci gaglioffi, tribunali ecclesiastici, indagini, lungo una linea che da Charles Maturin e Ann Radcliffe conduce sino a Victor Hugo del Notre-Dame de Paris e, come chiaro, al Mastino dei Baskerville di sir Arthur Conan Doyle.

Quali personaggi “tipici” e quali ricalchi da romanzo popolare compaiono nel Nome della rosa?
Palese è il parallelismo istituito tra il protagonista Guglielmo (da Baskerville) e Sherlock Holmes: stessa attitudine indiziaria, analoga familiarità con le droghe, identica sprezzatura umoristica. E allo stesso modo va per un cattivone da diporto come Malachia, le cui fattezze e circonlocuzioni verbali sono letteralmente ritagliate sul personaggio del monaco Schedoni, così come appare ne L’italiano, o il confessionale dei penitenti neri della Radcliffe (1797). O ancora si pensi al nemico vero, Jorge da Burgos, per un quarto debitore di Jorge Luis Borges: cecità, età veneranda, direzione della biblioteca nazionale a Buenos Aires, interesse reiterato per il libro dell’Apocalisse; e per tre quarti livida reincarnazione di un monaco cistercense a nome Bernardo di Chiaravalle.

Le riflessioni di Eco riguardo al modo in cui si allestisce un personaggio sono precoci, risalgono agli anni Sessanta. È allora che egli ragiona sulla categoria, lukácsiana, del “tipico”, in quanto personaggio che riflette un tempo e una dinamica sociale, e sul riuso di “topoi”, motivi, schemi, capaci di attrarre il lettore sulla scorta del riconoscimento o sulla scoperta del già noto. Allora, sullo scorcio iniziale degli anni Sessanta, il personaggio “topico” era inassimilabile esteticamente al personaggio “tipico”: l’uno si disponeva su un piano d’arte, l’altro favoriva l’intrattenimento. Ma parecchia acqua è ormai passata sotto i ponti, e nell’orizzonte postmoderno cadono simili distinzioni di valore, lasciando libero campo al bricolage, alla ricombinazione di tratti personaggistici comprovati da una lunga casistica di romanzi. Non è sul terreno dei personaggi che si può individuare il pregio del Nome della rosa: se non, forse, per ciò che riguarda la figura del comprimario-narratore, Adso, colto in gioventù e in vecchiaia da un medesimo turbamento esistenziale e religioso.

Quale Medioevo si racconta nel Nome della rosa?
Si racconta di un medioevo radioso, ma al tempo stesso corrusco di rovine e destinato a chiudersi ingloriosamente. Da un lato c’è il ridestarsi della logica, il primo sentore di semiologia, un timido affermarsi delle scienze, una rudimentale riforma dei reggimenti politici (Ruggero Bacone, Guglielmo di Ockham, Marsilio Ficino); e ancora il sorgere sontuoso delle cattedrali, la preservazione-riscoperta della cultura latino-cristiana, greca, araba. Dall’altro ecco il dilagare del fanatismo ereticale e, per contro, inquisitoriale; ecco il confliggere sanguinoso delle due autorità tramontanti: Chiesa e Impero; quindi la peste, il simbolico incendio abbaziale in cui bruciano i preziosi residui del mondo di ieri.

“Sull’Appennino ligure, tra Genova e Alessandria…”, chiesa abbandonata, Monte Tobbio, al centro del Parco naturale delle Capanne di Marcarolo

Eco respinge l’idea di un Medioevo come globale ottundimento della ragione, come periodo buio in attesa di una drastica fioritura del sapere. Tra Mille e Milletrecento, dice, si osservano elementi fondamentali per la civiltà moderna a seguire. Ma curiosamente non si intravedono nel romanzo i segnali di un Umanesimo ormai incipiente e del prossimo Rinascimento. È insomma una temporalità storica un po’ schiacciata, o monca, che va da un truce inquisitore come Bernardo Gui a un introverso teologo come Meister Eckhart (alcune frasi del quale sono riprese da Adso nelle pagine conclusive del romanzo).

I contenuti filosofici e politici del romanzo, di derivazione medievale, riconducono il lettore al clima arroventato che si respirava negli anni Settanta del secolo scorso: quali parallelismi è possibile tracciare tra le due epoche?
L’idea di leggere il medioevo con le lenti dell’attualità politica e sociale rimonta per Eco ai primi anni settanta. Ma nel marzo del 1978, con il rapimento e poi l’uccisione del dirigente democristiano Aldo Moro da parte delle BR, la sensazione di un appiattimento speculare si acuisce. Proprio nei giorni del blitz brigatista Eco dichiara di avere incominciato la stesura del romanzo.

C’è d’altronde un libro, che il nostro autore non nomina mai ma che deve avere inciso molto nel Nome della rosa: intendo I fanatici dell’Apocalisse, dello storico inglese Norman Cohn (I edizione 1957). Qui Eco trovava un esame approfondito del fanatismo ereticale (ariano, cataro, dolciniano, anabattista), però in una duplice prospettiva. Da un lato abbiamo le correnti millenariste apocalittiche, di matrice religiosa; dall’altro il loro inveramento in chiave secolarizzata, totalitaria, nazifascista e comunista. Su questa base si costituisce l’allegoria attualistica di un romanzo attentissimo nel ricostruire congiunture politiche e dibattiti di un XIV secolo quanto mai travagliato, ma insieme disponibile a un contin[]


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