di Crocifisso Dentello

“Sono nata il ventuno a primavera/ ma non sapevo che nascere folle/ aprire le zolle/ potesse scatenar tempesta.” Sono i versi più celebri di Alda Merini, che domani avrebbe compiuto 90 anni. Per un suo passato compleanno chiese ai servizi sociali del comune di Milano “un uomo caldo” anziché “un pasto caldo”. Accontentata, le fu “regalata” l’esibizione di uno spogliarellista mentre si trovava ricoverata per un intervento. A suo modo un episodio che restituisce il suo temperamento. Una donna che ha avuto due mariti e quattro figlie e a tal punto libera da calpestare sotto i piedi qualsiasi morale perbenista (rimasta vedova si risposa e come madre si contano più le assenze). Una poetessa che esordisce ventenne con la raccolta La presenza di Orfeo e a tal punto talentuosa da irretire intellettuali come Quasimodo e Pasolini. Con Manganelli intreccia persino una relazione. Dopo un lungo silenzio dagli anni 80 ricomincia a pubblicare, approda più tardi nella Bianca Einaudi ed è la consacrazione. Alda Merini non è mai stata un’impiegata della poesia, una di quelle che si mettono alla scrivania a cesellare righe che vanno a capo per poi contendersi il favore delle conventicole. È stata eccessiva e dispersiva fino all’autolesionismo. Dettava versi al telefono, li annotava su foglietti volanti. La poesia per lei non era una carriera da amministrare. Ecco perché anni fa, soggiogato dalla sua parabola, mi adoperai per conoscerla.
Non fu difficile varcare la soglia del suo piccolo appartamento sui Navigli (ricostruito e visitabile virtualmente sulle pagine social di Spazio Alda Merini). La cucina un campo di battaglia, stoviglie stipate nel lavello, frammenti di cibo sparsi ovunque. La sala il ripostiglio di un rigattiere, tanto vi erano ammassate cianfrusaglie. Le pareti coperte dai suoi graffiti: appunti e numeri di telefono segnati a pennarello. Era una giornata estiva torrida. La Merini mi ricevette con una vestaglia leggera. Mi accomodai sulla poltroncina del pianoforte da cui sapevo che ogni tanto amava strimpellare Chopin e Schubert. Fumava senza sosta e poi spegneva i mozziconi sul pavimento. Le domandai del dono della poesia, della fama che ora riscattava tante amarezze. “Ma quale poesia? Quale fama?” mormorò con disincanto, “semmai la fame. Ho le bollette da pagare. Quelle sono le cose che contano.” Quand’ero già sulla porta mi richiamò indietro e maliarda mi intimò: “Si ricordi sempre del coito. Il coito è importante” e divaricò le gambe. Non indossava le mutande. La sua risata sgraziata mi inseguì come una scia lungo le scale. La Merini in realtà se ne infischiava del decoro mondano. Quando nel 1993 le fu conferito il Librex-Montale, pur pressata dai debiti, si sputtanò i soldi del premio soggiornando in un hotel di lusso. Nel 2001 non esitò a posare nuda, con il suo corpo pingue e l’immancabile sigaretta tra le dita. Poteva permettersi il privilegio di una santità laica, la sublime noncuranza di una che guarda gli altri da un suo dolore inaccessibile. Prigioniera del manicomio per diversi anni, aveva conosciuto l’umanità più derelitta: matti che orinavano e defecavano sul pavimento, che si laceravano i vestiti, che gridavano oscenità.
Da quell’orrore sono maturati i suoi versi più intensi, raccolti nel 1984 in La terra santa: “… E dopo, quando amavamo/ ci facevano gli elettrochoc /perché, dicevano, un pazzo/ non può amare nessuno.// Ma un giorno da dentro l’avello/anch’io mi sono ridestata/ e anch’io come Gesù/ ho avuto la mia resurrezione,/ ma non sono salita ai cieli/ sono discesa all’inferno…”. La tv e i giornali hanno vampirizzato La pazza della porta accanto fino a trasformarla in un personaggio. Ma è comunque sopravvissuta, dal giorno dei santi del 2009 quando mancò per un tumore, a quella effimera polvere di stelle. Nelle librerie i suoi svariati volumi hanno tirature di tutto rispetto. Nel web è assurta a icona pop dalla quale spillare aforismi. La critica anche in virtù di questa mancata sobrietà fatica a farle posto nel canone. Lei sorniona risponderebbe: “… perciò tu che mi leggi/ fermo a un tavolino di caffè,/ tu che passi le giornate sui libri/ a cincischiare la noia/ e ti senti maestro di critica,/ tendi il tuo arco/ al cuore di una donna perduta./ Lì mi raggiungerai in pieno.”
Articolo pubblicato in origine sul numero de Il Fatto del 20 marzo 2021