Letteratura Recensioni

Palomar

Ho riletto 'Palomar' di Italo Calvino, perché non ce l'avevo più ben presente e rischiavo di non capire bene quel saggio; ho trovato la raccolta di racconti come in passato entusiasmante, ma ancora una volta noiosa. Perché?

di Maria Luisa Mozzi

Quando, alle scuole medie, mi fecero leggere ‘Il barone rampante’, pensai che fosse un romanzo assai noioso. Lo pensai con forza, tanto da sostenerlo in una conversazione con una zia letterata, di cui avevo soggezione, la cui presenza mi riduceva solitamente al silenzio. Negli anni successivi, il mio rapporto con i romanzi di Italo Calvino non si è interrotto: li ho letti e riletti, analizzati, postillati, ho capito che sono belli e importanti, ma ho continuato a trovarli noiosi, ad eccezione di quelli ‘realisti’. I giorni scorsi ho riletto ‘Palomar’, perché ne parla un saggio che mi interessa in questo momento, ‘Settanta’, di Marco Belpoliti, Einaudi 2020. Nel capitolo VI di questo saggio Belpoliti svolge una analisi parallela di ‘Palomar’, appunto, e dei ‘Sillabari’ di Goffredo Parise. Ho riletto ‘Palomar’ perché non ce l’avevo più ben presente e rischiavo di non capire bene quel saggio; ho trovato la raccolta di racconti come in passato entusiasmante, ma ancora una volta noiosa. Perché? Provo a fare un giro un po’ largo per spiegarlo, ma non troppo, semplificando ed escludendo molto, per non perdermi. Calvino ebbe l’obiettivo, consapevole e da sempre teorizzato, di assegnare alle sue opere letterarie due piani di lettura:

– un piano narrativo, comprensibile a tutti, di fiaba o di allegoria o di distopia spazio-temporale o di avventura, anche se stilizzata;

– un piano dedicato ai suoi lettori ideali, “persone che per me contano, cioè quelle impegnate a progetti per il mondo futuro, […] impegnate a una razionalizzazione del reale (a cui vale la pena dedicarsi proprio perché il reale non è di per sé razionale) e voglio che queste persone si valgano di quella particolare intelligenza del mondo che la letteratura e solo la letteratura può dare” (Italo Calvino, ‘Mondo scritto e mondo non scritto’, Einaudi 2001, pag. 45).

Calvino, in altre parole, dice che vuole scrivere per i lettori “che contano”, cioè quelli che capiscono di avere bisogno di modelli universali attraverso cui guardare il mondo; che constatano che questi modelli si dimostrano inadatti, falliscono il loro scopo perché il reale non è razionale; che decidono di rilanciare la ricerca; che concludono che forse i modelli non sono universali e tuttavia sono utili; che auspicano che quello che non viene spiegato dai modelli razionali possa essere detto dalla letteratura.

Vittorini già nel 1947, ai tempi del “Politecnico”, aiutò Calvino a trovare la voce giusta nelle sue opere; in una lettera di quell’anno gli scrive, dopo avere letto il racconto ‘In ultimo venne il corvo’ e un altro racconto di cui non si dice il titolo:”[…] mi limito a dirti che il tuo racconto ‘In ultimo venne il corvo’ mi è piaciuto molto malgrado le forzature un po’ letterarie che contiene. Tutta la materia affrontata, con questo racconto, tu l’hai risolta in narrazione. Mentre per l’altro (racconto) […] mi sembra che per te, in questo momento, non esista la possibilità di realizzare contemporaneamente in senso di racconto e in senso di saggio. Ogni volta che passi dalla parte di saggio alla chiave di racconto e viceversa non sei più padrone della materia. E infatti ti accade di tentare la realizzazione degli elementi saggistici con una ‘finzione’ ancora narrativa. Il che pure si può fare, ma bisogna ‘farlo’, essere tagliato per ‘farlo’: come Huxley, per esempio […]” (Elio Vittorini, ‘Gli anni del “Politecnico”‘1945-1954, Einaudi, 1977, pag.101).

Insomma: Vittorini consigliò a Calvino di concentrarsi su quello che aveva dato prova di saper fare in ‘In ultimo venne il corvo’, cioè narrare e affidare alla narrazione il compito di veicolare sia i fatti sia i temi filosofici, e gli suggerì di non passare a modi di scrittura propri della saggistica, passaggio che non sarebbe stato in grado di gestire bene. Mi sembra che successivamente Calvino abbia ascoltato il consiglio di Vittorini e applicato la “risoluzione in narrazione” in tutte le sue opere, alle quali pure ha dato i due livelli di lettura di cui si diceva sopra. Mi sembra, in particolare, che la voce che Vittorini gli aveva indicato diventi effettivamente la sua voce nelle opere letterarie non ‘realiste’, anche in quelle che più risentono delle innovazioni degli anni Sessanta e Settanta, dalla letteratura come gioco combinatorio alla letteratura come metaletteratura.

Torniamo a ‘Palomar’. In ‘Palomar’, raccolta di testi che sembra una autobiografia, il protagonista/alter ego Palomar è proprio uno che non ha interesse all’individuale, alla vita pratica che scorre in tempi e luoghi, ma all’universale, agli schemi che possono ordinare ciò che si può osservare della realtà. ‘Palomar’ è quello che Calvino ha sempre voluto raccontare: il conato all’universalità, per conoscere l’intero universo attraverso un ordinamento razionale; il fallimento; la rinuncia all’universalità ma non alla razionalità, per cercare di trovare l’ordine almeno nei dettagli; il tentativo di spiegare ciò che della realtà resta fuori dai modelli; la delega alla letteratura. Palomar è stralunato e curioso, emarginato e ridicolo, solitario, quasi muto, e, appunto, si muove, agisce sulla scena: guarda la realtà, il mare, la terra, il cielo per cogliere l’ordine universale; guarda Roma dall’alto della sua terrazza e vede che il paesaggio cambia a seconda dei punti di vista da cui lo si guarda; prova a sezionare la realtà per creare modelli parziali del suo funzionamento; si accorge che il linguaggio e i suoi segni sono strumenti ambigui e che i silenzi, come i vuoti nel cielo stellato, significano anch’essi qualcosa; si domanda se le cose esistano in sé o solo quando siano guardate da qualcuno; capisce che i testimoni dei fatti non ci riportano tutti la stessa realtà, che il loro riferire dipende  dall’angolatura, dalla prospettiva, dalla luce in cui hanno visti quei fatti, e così via.

«Il nome richiama un potente telescopio, ma l’attenzione di questo personaggio pare si posi solo sulle cose che gli capitano sotto gli occhi nella vita quotidiana, scrutate nei minimi dettagli con un ossessivo scrupolo di precisione. Forse è per rintracciare il filo del discorso che scorre là dove le parole tacciono, che Palomar tende l’orecchio al silenzio degli spazi infiniti o al fischio degli uccelli, e cerca di decifrare l’alfabeto delle onde marine o delle erbe d’un prato.»

Tutto questo è raccontato, come dicevo; l’opera non diventa mai un saggio, anche se l’ordinamento dei racconti è tale per cui si passa dall’osservazione alla riflessione alla meditazione e la struttura del romanzo mappa anche una lettura dei racconti con i criteri del secondo livello di lettura, oltre che del primo. Detto questo, perché le opere letterarie di Calvino, tranne quelle realiste, sono noiose? Perché ‘Palomar’ è noioso? Provo a dare due risposte.

1. Al lettore che colga anche il secondo livello delle opere di Calvino, appare evidente come tutte, tranne quelle ‘realiste’, siano strutturate secondo le stesse ossessioni e pongano lo stesso problema a livello filosofico: la necessità di ordinare, controllare, governare, giustificare, riempire di significato tutto, anche quello che non rientra nelle categorie di ordinamento che si siano prefissate. È quello che ho appena scritto di ‘Palomar’, ma mi sembra che si ritrovi anche in ‘Marcovaldo’, in ‘Le città invisibili’, nella ‘Trilogia’ (basta pensare ad Agilulfo de ‘Il cavaliere inesistente’). Anche l’istanza della metaletteratura, specialmente in ‘Se una notte d’inverno un viaggiatore’, mi sembra che ricada nell’ossessione dell’ordinare e del controllare e anche del fallimento, visto che quest’opera mantiene nel finale molto meno di quanto prometta nell’inizio. Calvino dice che il romanzo è diventato “un’opera narrativa fruibile e significante su molti piani che si intersecano” (Italo Calvino, ‘Mondo scritto… cit. pag.30), ma i suoi romanzi giocano tutti principalmente su due piani narrativi, non infiniti, e ci portano a percorrere quasi sempre le stesse piste. Sono perciò noiosi.

2. Per il lettore che coglie solo il primo livello di narrazione, la noiosità ha un altro motivo. I personaggi di Calvino si muovono per delle finalità o perché costretti, agiscono in un ambiente, hanno relazioni con altri personaggi, parlano, pensano, progettano, come capita in qualsiasi racconto. Ma sulle loro azioni corre anche la narrazione del secondo livello della narrazione, quello filosofico. Cosa succede, allora? Prendo ancora ‘Palomar’ come esempio. Palomar nel primo racconto guarda le onde del mare, anzi, ne guarda una sola, perché “volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e preciso” (Italo Calvino, ‘Palomar’, Einaudi 2012, pag. 6). Seguono a questa affermazione due pagine che descrivono i tentativi falliti di Palomar di guardare, distinguere, interpretare, capire l’onda che ha scelto di osservare.

Ora, il lettore di secondo livello capisce il motivo di tanta grazia e va avanti. Il lettore di primo livello sbadiglia, gira pagina per vedere quanto duri la descrizione dell’onda e dell’indagine di Palomar e come vada a finire, vede che non c’è un finale del racconto, chiude il libro e lo rimette nella libreria, perché ha capito che lo annoierà a morte.


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