Prigionieri della scrittura

di Paolo Lago

Vito Di Battista

Secondo Roland Barthes, la scrittura è un compromesso tra un atto di libertà e un ricordo, “è quella libertà piena di ricordi che non è libertà se non nell’attimo della scelta, ma già non più nella sua durata” (R. Barthes, Il grado zero della scrittura, trad. it. di G. Bartolucci, Lerici, Milano, 1960, p. 29). E non si può neanche sviluppare una scrittura in una direzione – continua Barthes – senza diventarne prigionieri (cfr. ivi, p. 30). Uno scontro continuo fra prigionia e libertà è presente nella scrittura di Il buon uso della distanza (Gallucci, 2023) di Vito Di Battista, in cui l’io narrante Pierre è proprio uno scrittore che, per avere successo, decide di utilizzare sempre uno pseudonimo diverso. La figura di Pierre è ispirata a quella dello scrittore Romain Gary, che ha costruito la sua attività letteraria sull’uso di diversi pseudonimi (lo stesso nome Romain Gary è lo pseudonimo del suo vero nome Roman Kacew), giungendo a vincere il premio Goncourt due volte sotto due nomi diversi. L’utilizzo di uno pseudonimo è in sé un forte atto di libertà perché, in questo modo, si libera la propria scrittura e autorialità dall’identità; ma è anche una prigionia perché ci si ingabbia continuamente dentro altri nomi. La libertà della scrittura, come sempre nota Barthes, dura appena un momento, ed è piena di ricordi.

Non è un caso che la scrittura di Di Battista, in questo suo romanzo, si srotoli come un ricordo continuo, un vortice che si inerpica in un flusso memorialistico attraverso la Parigi della fine degli anni Settanta. Un vortice che sembra ripetersi incessantemente uguale, come nella sequenza circolare, che riprende una rotatoria nel centro di Parigi, che vediamo in Troppo presto, troppo tardi (1981) di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Parigi è uno sfondo proiettato appunto nel vortice del ricordo, laddove gli individui appaiono incapsulati in ruoli separati da una “distanza” di cui si fa buon “uso”; Pierre ha una corrispondenza epistolare con una misteriosa e sconosciuta “Madame” che lo guida nella creazione delle sue alterità letterarie ed è proprio “Madame” a dirgli, in una lettera: “Credo nella bellezza di chi sta nell’ombra, ed è quella bellezza che cerco di preservare. Così come credo anche nel suo potere e non a quello di chi manifesta, di chi reclama il proprio ruolo senza capire qual è davvero il senso di tutto, il privilegio, la profonda connessione che si può intessere con qualcuno attraverso le parole”. Bellezza e – si potrebbe aggiungere – libertà è stare nell’ombra, inerpicati nella distanza, separati dalla lontananza epistolare, nascosti nell’anonimato o misteriosamente celati sotto nomi fittizi. La scrittura come libertà-prigione è perciò espressa soprattutto dagli eteronimi, dall’altro da sé. In un epilogo che precede quello finale, segnato da uno sbalzo in avanti di venticinque anni, quindi in pieni anni duemila, Pierre scrive, in un’ellissi in cui la temporalità si comprime, “ho viaggiato, ho conosciuto la malinconia di altre stazioni di campagna”.

Qui, il paradigma principale è sicuramente il “summary” narrativo che Gustave Flaubert ci offre in L’educazione sentimentale relativamente ai viaggi del protagonista Frédéric Moreau: “Viaggiò. Conobbe la malinconia dei piroscafi, i freddi risvegli sotto la tenda, lo stordimento dei paesaggi e delle rovine, l’amarezza delle simpatie interrotte”. Pierre, come Frédéric, dopo un’ellissi di silenzio, torna nell’universo del passato, a ripensare a Claire, così come il personaggio di Flaubert, alla fine del romanzo, incontrerà la signora Arnoux a Parigi, il suo antico amore, dopo i suoi viaggi. Come in L’educazione sentimentale, anche in Il buon uso della distanza, la capitale francese si configura come il centro irradiatore di tutto ciò che sta intorno alla scrittura (editoria, premi letterari, salotti), il nucleo del vortice che quella stessa scrittura crea, un vortice contemporaneamente di libertà e di prigione. Anche negli pseudonimi e negli eteronimi, anche rivestendo i panni dell’altro, credendo in impeti di libertà, probabilmente, siamo invece prigionieri.


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