Sono passati più di nove anni dall’uscita di A Moon Shaped Pool (2016), ultimo album pubblicato dai Radiohead che è sembrato confermare e ribadire l’intento di Yorke e compagni di lasciare al passato le sonorità britpop di The Bends o le distopiche rock-ballad di Ok Computer. Con l’impegno dei componenti sempre più indirizzato verso i propri progetti solisti (Thom Yorke e Jonny Greenwood con i The Smile, Colin Greenwood in tour con Nick Cave, e Phil Selway con l’uscita del suo terzo album Strange Dance), esce a sorpresa “Hail to The Thief – Live Recordings 2003-2009”, una raccolta di registrazioni dal vivo di tutte le canzoni dell’omonimo album uscito nel 2003, a (triste) eccezione di Backdrifts e A Punch Up at a Wedding.
Hail to The Thief ricopre una posizione delicata in quella che è la leggendaria discografia della band inglese, siccome esce subito dopo la cosiddetta “transizione musicale” che i Radiohead hanno effettuato a cavallo degli anni 2000, obliando le chitarre e gli assoli rock dei primi tre album in favore di un sound figlio di un’elettronica cupa e onirica. Il disco, che deve la sua veste grafica (come tutti gli album dei Radiohead a partire da The Bends) all’artista Stanley Donwood, vuole essere non solo un messaggio politico ai danni delle elezioni presidenziali USA del tempo (Amministrazione Bush), ma anche un campanello d’allarme per quello che sembrava (e sembra tuttora) essere un inevitabile ritorno ai Secoli Bui.
2+2=5 (The Lukewarm). Il live di questo brano si apre con le voci di Yorke e O’Brien calpestate dal riff ipnotico della chitarra del minore dei fratelli Greenwood. Il testo è chiaro, anzi, limpido: soltanto i sognatori credono di poter aggiustare il mondo, io, dal canto mio, preferisco restarmene tra le mura di casa, dove due più due fa sempre cinque. La versione live conserva fedelmente la struttura dell’originale: le tre chitarre sovrapposte, il basso mugolante di Colin G. e le percussioni ordinate di Selway, che in mezzo alle distorsioni (YOU HAVE NOT BEEN PAYING ATTENTION) rimane composto fino alla violenta eclissi del pezzo.
Sit Down. Stand Up. (Snakes & Ladders). Silenzio. Il campionamento sottile e metallico di un Hi-Hat. Poi il pitch-shifting di un pianoforte e la voce di Thom. Sit Down. Stand Up. (Insieme all’assente Backdrifts) è l’esempio perfetto di come una sfrenata sperimentazione abbia portato i Radiohead a esplorare in lungo e in largo i confini estremi del suono, ma non solo. Anche i testi di Hail to The Thief sono frutto della stessa matrice sperimentale: forse è per questo che nel brano Thom ripete la frase “The raindrops” quarantasette volte?
Sail to The Moon (Brush the Cobwebs out of the Sky). Il brano si apre con il riff al pianoforte di Jonny Greenwood ispirato a Gnossienne No.1 di Erik Satie, e accompagna per tutta la durata della canzone la voce malinconica di Yorke. L’arrangiamento è minimalista e la scelta, perfettamente riprodotta anche nella versione live, lascia spazio all’intimità di un testo che trasuda rimpianto (I spoke too soon) ma allo stesso tempo preserva intatta la speranza che “un giorno qualcuno riesca finalmente a costruire l’Arca sotto al diluvio e, con essa, a traghettarci fino alla luna”.
Go To Sleep (Little Man being Erased). Il live di Go To Sleep è più incalzante e movimentato del brano originale, e più accentuato è anche il basso del maggiore dei Greenwood. O’Brien segue quella che è una vera e propria cantilena alternando i pedali della sua Stratocaster, passando da riff acuti e minimali fino ad arrivare a un doppio assolo (eseguito insieme a Jonny G.) che manca nella canzone dell’album del 2003, e che rende questa versione più profonda e strutturata.
Where I End and You Begin (The Sky is Falling in). Questa è probabilmente la canzone più sottovalutata di tutto il ciclopico repertorio della band inglese: Where I End and You Begin rimane una delle opere chiave a cui approcciarsi nello sfortunato caso in cui il nome “Radiohead” non suoni familiare, e questa sua interpretazione dal vivo, leggermente più corta dell’originale, rimane un brano pazzesco, complesso, articolato, e che vede le Onde Martenot manovrate da Jonny G. come bave di una ragnatela dalla quale pendono un basso ovattato, una sequela di percussioni aggressive (pur rimanendo nel solito rigore Selwayiano) e le minacce di Thom: I will eat you alive and there’ll be no more lies.
We suck Young Blood. (Your Time is up). Ritorna il piano e per la prima volta si sente con chiarezza il battito di mani del pubblico che, pur essendo in parte fuori tempo, conferisce a questa versione una sorta di aura lirica e inevitabile. La percezione di ascoltare il suono di migliaia di persone, invece dei soliti cinque componenti della band, è il motivo per il quale non è affatto inappropriato arrivare a considerare questo brano pari (se non superiore) all’originale.
The Gloaming. (Softly Opens our Mouths in the Cold). Il genio esce dalla bottiglia ed è subito l’ora delle streghe (It is now the witching hour). O’Brien gioca con il suo arsenale di campionamenti e Colin G. lo supporta con tre note dense, cupe, che si ripetono per tutta la canzone. Alle tonalità basse dei campionamenti si alternano le percussioni sottili e acute della drum-machine e i piatti leggeri di Selway. La versione live è perfettamente fedele all’originale, con l’aggiunta di un agglomerato di sovrapposizioni della voce di Thom ottenute attraverso una serie di pedali. Piuttosto divertente. (Funny haha. Funny How?).
There, There (The Boney King of Nowhere). Sono sufficienti un paio di secondi di tamburi tribali presi a mazzate da Jonny G. e O’Brien per risvegliare un pubblico attento (o forse attonito) ma silenzioso. Il famoso riff di chitarra si disperde nell’aria e si è subito proiettati nella foresta, al fianco di Thom alla ricerca di questo “Ossuto sovrano dell’inesistente”. Questo è l’unico brano nel quale tre componenti su cinque sono alle prese solo e unicamente con le percussioni; perlomeno fino a quando, ribadito per un’ultima volta il concetto chiave della canzone (Just because you feel it, doesn’t mean it’s there), anche Jonny G. ritorna alla sua chitarra ed esegue l’assolo che porterà lentamente al declino della canzone. La versione è esattamente come l’originale e, come tale, ricorda a tutti – tutto sommato cordialmente – ciò che realmente siamo: “incidenti che aspettano di accadere”.
I Will (No man’s Land). Dopo il violento viaggio nella foresta inesistente, gli occhi e le orecchie si spostano sulla chitarra delicata di Thom, che accarezza le corde dando un attimo di respiro a Selway e ai due polistrumentisti. Soltanto Colin G. accompagna il frontman, eseguendo una serie di note minimali in sottofondo e aggiungendo spessore alla voce di Yorke e alle immagini che disegna. “Elefanti bianchi” (elementi costosi privi di benefici) e “anatre sedute” (i bersagli più facili) precedono il ritorno alle distorsioni del brano successivo.
Myxomatosis (Judge, Jury & Executioner). La chitarra di O’Brien e il basso di Colin G. aprono uno dei pezzi più atipici dell’intero album. Alla voce di Thom si aggiungono le tastiere tornate sotto le sapienti dita di Jonny G. e, per la prima volta e unica volta, anche il metodico Selway si lascia andare al ritmo irrefrenabile e incalzante di un brano come nessun altro. Myxomatosis è l’apice ultimo di un album che ha esaurito la propria combustione e che è destinato a spegnersi nella malinconia degli ultimi due brani.
Scatterbrain (As Dead as Leaves). La diade conclusiva dell’album è inaugurata dal ritorno alla “normalità” di Selway, che passa in rassegna i suoi piatti e tiene le briglie del riff di chitarra di Yorke, il quale, come se domandasse perdono per l’uptempo selvaggio della canzone precedente, ritorna a una tonalità più tranquilla e melodica. Scatterbrain è l’evocazione di una serie di immagini decadenti, affilate, come “gli uccelli scagliati qua e là”, o “i proiettili al posto dei chicchi di grandine”. Non c’è tempo per dare un’interpretazione, per attribuire un significato alle cose, in un mondo dove persino la forza di volontà è da considerarsi come un lusso. Bisogna restare in movimento. Restare all’erta. Non siamo altro che un bersaglio in movimento in un poligono di tiro (A moving target in a firing range).
A Wolf At the Door (It Girl. Rag Doll). La raccolta si chiude con un brano che tratta la paranoia. L’ambientazione criptica e fiabesca viene narrata dalla voce di Yorke mentre O’Brien riprende la sua Stratocaster e, insieme ai due Greenwood, alterna riff intensi e rapidi a una serie di note lunghe che si vanno a disperdere sullo sfondo del brano. Il pubblico accoglie con vigore la fine di una performance live che potrebbe aver sorpreso chi non ha piena familiarità con Thom e compagni; e che invece avrà pienamente soddisfatto le vertiginose aspettative di chi è da sempre abituato ad avere il meglio da quella che è una delle band più importanti degli anni 90 e 2000. Una delle pochissime che raramente delude.



