di Terry Passanisi
Da bambino ridevo di cose che da adulto ho considerato risibili. Si sa, l’ingenuità perduta che permea l’infanzia è qualcosa a cui guardiamo, una volta cresciuti, con languida malinconia. Tranne quelle volte in cui ci rendiamo conto che, sotto sotto, è meglio essere diventati grandi e un pelo più rodati, per innumerevoli ragioni pratiche e intellettuali. Ricordo, con un pizzico di supponente indulgenza, il modo in cui, durante gli anni della scuola elementare, mi sbellicavo davanti alla televisione per le gag del Tenerone di Gianfranco D’Angelo, oppure dell’Orologiao-ao-ao di Enrico Beruschi, personaggi di inaudito successo della trasmissione Drive-in; ogni domenica sera, di ritorno dalle mie gare sportive, si ripeteva quel rito tutto italiano (per me, i miei genitori e per altri milioni di telespettatori delle reti del Biscione) di divertimento inarrivabile, immancabile, nonostante quelle trovate fossero delle tiritere innocenti ripetute pedissequamente in ogni puntata. Sperando di non essere tacciato di snobismo umoristico, mi rendo conto che quelle trovate, seppure affabili e candide, a distanza di trent’anni non riscontrerebbero più lo stesso clamoroso successo, per molteplici ragioni che un massmediologo vi spiegherebbe meglio di me. Certo, la scrittura di quei copioni era lo specchio dei tempi, e il linguaggio degli italiani degli anni 80 – così come la loro soglia di divertimento – era più limitato e molto meno esigente.
Oggi, grazie al digitale terrestre, o ancora più comodamente su Internet, è possibile, di quelle gag, rivederne alcuni stralci, se non addirittura un episodio intero, per chi se la sentisse. Ma è davvero solo a causa del passare del tempo che quelle battute, una volta apparentemente geniali, sono invecchiate così male? La spiegazione più logica attingerebbe da numerose argomentazioni antropologico-culturali, ed è complessa per essere affrontata nel breve volgere di questo spazio. Sono convinto però che né lo scorrere del tempo né una consapevole capacità critica potrebbero ridimensionare la qualità di un’ottima e assoluta trovata comica. La prova del nove mi è stata data recentemente dalla lettura del capolavoro di humour “Tre uomini in barca” di Jerome K. Jerome, romanzo breve pubblicato per la prima volta nel 1889. Mi permetto di consigliare ai tanti aspiranti comici che oggi affollano programmi e talent show di cabaret – nonché a tutti, ma proprio a tutti – di leggerselo almeno una volta; di farsi ispirare dai grandi autori satirici del passato che, ancora oggi, sono in grado di scatenare una sana e fresca risata. O, perlomeno, di confrontarsi con il solido modo con cui essi architettavano le trovate più divertenti. Ne gioverebbe di sicuro alla quindicina di minuti di fortuna e gloria di taluni aspiranti umoristi.
Senza le invenzioni umoristiche degli scrittori del XIX secolo, per esempio, Italo Calvino non sarebbe stato quel genio tanto ispirato né, di conseguenza, Paolo Villaggio avrebbe iniettato tanto mordente nelle trovate del personaggio di Fantozzi, per dirne uno e non a caso. Faccio un esempio citando un passaggio del racconto di Jerome che parla chiaro a tutti i cultori del ragioniere più sfortunato d’Italia, in cui i suoi tre protagonisti, ormai stremati dal viaggio in barca e dall’acquazzone buscato poco prima, si presentano così a teatro: “… E cioè: scarpe nere, infangate; abito di flanella per lo sport nautico, molto sudicio; cappello di feltro marrone, assai malconcio; impermeabile molto bagnato; ombrello.”
Aggiungerei che mancava loro solamente il siero antivipera a tracolla e un’elegante visiera del Casinò municipale di Saint-Vincent… Ma, scusatemi un attimo, che – come qualcuno pasticcia a dire – “devo scendere a pisciare” Montmorency, il fox terrier. Prima che si azzuffi di nuovo, uscendone per sempre sconfitto, con l’imperituro bricco del tè.
Letture consigliate:
- Tre uomini in barca – Jerome K. Jerome (Feltrinelli)
- Marcovaldo – Italo Calvino (Einaudi)
- Il secondo tragico Fantozzi – Paolo Villaggio (Rizzoli)