di Terry Passanisi

Spesso – ma potrei tranquillamente dire sempre – davanti a un capolavoro l’unica vera necessità per contemplarlo pienamente è quella di tacere. Volendo essere questo, però, un articolo su L’avventura di un fotografo, racconto tratto dalla raccolta Gli amori difficili dalla geniale penna di Italo Calvino, devo per forza disobbedire i precetti della contemplazione perfetta dell’Arte e accennare perlomeno qualche breve commento scritto; sempre che di fronte a un tale miracolo letterario, se non altro una delle disamine più precise e profonde che mi sia mai capitate di leggere sulla disciplina della fotografia, io sia capace di trovare le parole adatte ad aggiungere qualcosa, che, per quel che mi pare, non si può o non si dovrebbe aggiungergli. Insomma, dice il protagonista della vicenda, Antonino, critico spietato nei confronti dei cosiddetti fotografi della domenica:
“Se mi mettessi a fotografare io, andrei fino in fondo […]. Voi invece pretendete ancora di esercitare una scelta. Ma quale? Una scelta in senso idillico, apologetico, di consolazione, di pace con la natura la nazione i parenti. Non è soltanto una scelta fotografica, la vostra; è una scelta di vita, che vi porta a escludere i contrasti drammatici, i nodi delle contraddizioni, le grandi tensioni della volontà, della passione, dell’avversione. Così credete di salvarvi dalla follia, ma cadete nella mediocrità, nell’ebetudine.”
Per poi cadere egli stesso, in quel pozzo di mediocrità e di ebetudine, che ingurgita ogni dilettante convinto d’essere un novello Cartier–Bresson dal fulgido futuro artistico, scoprendo un istante dopo d’appassionarsi alla fotografia come coloro che criticava prima con tanta acribia. Mentre si legge quel passo, pare di ritrovarsi sotto gli occhi uno degli svariati commenti tanto facili da trovare oggi su Facebook: cinquant’anni fa Calvino criticava così, con ineguagliabile maestria, i sedicenti esperti che urlano ai quattro venti come va fatta questa o quell’altra cosa. Poi, si metta pure una mano sul fuoco, la faccenda non può che peggiorare:
“Però ancora non si sentiva su terreno sicuro: non stava cercando per caso di fotografare dei ricordi, anzi, dei vaghi echi di ricordo affioranti dalla memoria? Il suo rifiuto di vivere il presente come ricordo futuro, al modo dei fotografi della domenica, non lo portava a tentare un’operazione altrettanto irreale, cioè a dare un corpo al ricordo per sostituirlo al presente davanti ai suoi occhi?”
Qual è l’intrinseco mistero della fotografia (o della creatività, dell’arte in sé), domanda che mi sono posto centinaia di volte alla luce della popolarità mondiale di questa pratica, che seduce e conquista così tanti appassionati? Bene, ecco qua. Calvino, nel tempo e nello spazio limitati di un racconto, ce lo svela meglio di qualunque manuale tecnico:
“Nel laboratorio d’Antonino pavesato di pellicole e provini Bice (la fidanzata, n.d.r.) s’affacciava da tutti i fotogrammi, come nel reticolo d’un alveare s’affacciano migliaia di api che sono sempre la medesima ape: Bice in tutti gli atteggiamenti gli scorci le fogge, Bice messa in posa o colta a sua insaputa, un’identità frantumata in un pulviscolo d’immagini. – Ma cos’è questa ossessione di Bice? Non puoi fotografare altro? – era la domanda che sentiva continuamente dagli amici, e anche da lei.
Non si tratta semplicemente di Bice, – rispondeva. – È una questione di metodo. Qualsiasi persona tu decida di fotografare, o qualsiasi cosa, devi continuare a fotografarla sempre, solo quella, a tutte le ore del giorno e della notte. La fotografia ha un senso solo se esaurisce tutte le immagini possibili.”
È naturale che, come per tutte le ossessioni che si rispettino, tanto quelle riguardanti le pratiche del tempo libero quanto quelle sentimentali, per il travagliato Antonino non andrà a finire bene. Senza volervi rompere le uova nel paniere e svelarvi l’evoluzione della vicenda con involontari spoiler (mi accorgo d’invecchiare per l’associazione spontanea che faccio di questo inglesismo con gli alettoni posteriori delle automobili pseudo–fantascientifiche anni 80…), consiglio vivamente ai praticanti alle prime armi – e pure ai professionisti – della fotografia di leggere il racconto per intero, anche solo per farsi illuminare dalle assolute verità che esso è in grado di rivelare (non solo sulla fotografia). È chiaro che quella particolare disciplina serva soprattutto da pretesto per parlare di un mondo.
“Non che (Antonino, ndr) volesse scoprire qualcosa in particolare; non era un geloso nel senso corrente della parola. Era una Bice invisibile che voleva possedere, una Bice assolutamente sola, una Bice la cui presenza presupponesse l’assenza di lui e di tutti gli altri.”
Mi chiedo, infine, alla luce di tanta perfetta e minuziosa sintesi, se non avessero davvero ragione le arcaiche popolazioni indigene dell’Africa che, davanti all’obiettivo di una fotocamera, si schermavano o, peggio, se la davano a gambe levate per il timore che quell’occhio malefico rubasse loro l’anima. Immaginavano che di quell’anima si sarebbe poi nutrito, nell’oscurità del suo studio, proprio l’uomo che l’aveva loro sottratta, e che per realizzare la propria ossessione aveva fin da principio venduto la propria al demone dell’arte. Oggi non credo che quelle tribù ci caschino ancora, a causa della globalizzazione, sì, ma, soprattutto, proprio a causa della fotografia.
Letture consigliate:
- Le città invisibili – Italo Calvino (Oscar Mondadori)
- Un amore – Dino Buzzati (Oscar Mondadori)
- Le ragazze di San Frediano – Vasco Pratolini (BUR)
- La camera chiara. Nota sulla fotografia – Roland Barthes (Einaudi)