di Umberto Eco
Riunirsi non vent’anni ma quarant’anni dopo può avere due funzioni, o profili. Una è la riunione dei nostalgici di una monarchia, che si ritrovano perché vorrebbero che il tempo tornasse indietro. L’altro è la riunione dei vecchi compagni della terza A, nel corso della quale è bello rievocare il tempo perduto proprio perché si sa che non ritornerà più: nessuno pensa che si voglia tornare indietro, semplicemente si sta recitando il proprio longtemps je me suis couché de bonne heure, e ciascuno assapora nei discorsi degli altri la propria madeleine inzuppata nell’infuso di tiglio. Spero che questo nostro ritrovarci abbia più del simposio tra vecchi compagni di classe che del complotto di vandeani nostalgici, con un solo correttivo. Che ci si riunisce anche per riflettere su di un momento della cultura italiana, rileggendolo col senno di poi, per capire meglio che cosa sia avvenuto, e perché, e per aiutare i più giovani, che non c’erano, a comprenderlo meglio. Nella fattispecie, poiché non sapevo in anticipo chi avrei trovato in questa sala, ho pensato ad alcune annotazioni sull’ambiente culturale di quarant’anni fa, dirette principalmente a chi non c’era, e non a a tutti i sopravvissuti che ritrovo con grande piacere ma che, come era d’uso allora, mi contesteranno che tutto quanto avrò detto era sbagliato. Riandiamo dunque alle origini, e poiché parliamo qui a Bologna, nel ricordo ancora indimenticabile di Luciano Anceschi, ricordiamo che in principio era il Verri.
Il Verri
Mi ricordo benissimo di quel maggio 1956 in cui Anceschi mi ha telefonato. Lo conoscevo di fama. Che cosa poteva sapere lui di me? Che da meno di un anno e mezzo mi ero laureato a Torino in estetica, che vivevo ormai a Milano e stavo frequent[…]
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