di Antonio Prete
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
È l’ultimo verso di Lavandare, una poesia di Pascoli nota per essere tra le più antologizzate e studiate nelle scuole. Appartiene alla raccolta Myricae, alla sua terza edizione (1894; la prima edizione è del 1891). C’è subito da dire che questo verso molto bello non è di Pascoli, ma viene da un canto popolare marchigiano che il poeta lesse nella raccolta pubblicata da Antonio Gianandrea nel 1875 (prendeva vigore in quel giro di anni l’attenzione a forme e testi delle tradizioni popolari e la loro trascrizione). Questo passaggio dalla voce anonima alla voce del poeta, dal canto alla scrittura, dal verso popolare alla poesia del singolo è un passaggio che non riguarda solo questo verso ma l’ultima parte del testo pascoliano, dove, più che la voce delle lavandaie, sono messe in for[…]
via Pascoli. Come l’aratro in mezzo alla maggese | Doppiozero