di Anna Stefi
Georges Perec, sdraiato sul divano dello psicoanalista Jean-Bertrand Pontalis, ritrova il suo ricordo più doloroso. Un ricordo d’infanzia, riguardante la deportazione della madre. In W ou le souvenir d’enfance, sua opera autobiografica pubblicata nel 1975, consegna il compito di dire quel dolore straziante a una casella vuota. Non un capitolo, ma un taglio tra un capitolo e l’altro: tre puntini di sospensione che interrompono una struttura che intreccia un racconto di finzione a una collezione di ricordi. La lacerazione più grande si consegna in un vuoto che toglie l’aria.
Primo Levi nella prefazione di Se questo è un uomo scrive il suo passo indietro rispetto al dolore: testimoniare e cercare di comprendere per restituire «uno studio pacato dell’animo umano».
Ma la poesia che precede, soglia ulteriore, ordina al lettore di considerare, meditare, ripetere.
La comprensione è impossibile, e insostenibile il ricordo come esperienza individuale. Per ricordare è necessario pensare all’esperienza come zona di irrealtà.Simonetta Fiori e Massimo Recalcati sono intervenuti sulle pagine di Repubblica in questi giorni rinnovando un dibattito cui avevano preso parte l’anno scorso, sul medesimo quotidiano, Michela Marzano, Stefano Bartezzaghi e Miguel Gotor. «Il dolore è di gran moda». Osservando il successo popolare dei racconti-testimonianza, Gotor faceva notare come rispondessero a un’esigenza di messa a nudo come garanzia di autenticità; la verità certificata nella carne, nell’esperienza vissuta. Michela Marzano rivendicava la necessità di guardare a quello scrivere come atto militante: nominare l’esperienza del dolore per dire l’origine del proprio interrogarsi sul mondo; incarnare il pensiero. Bartezzaghi registrava come il dolore non venisse più fatto oggetto di elaborazione: viscere esibite, senza la mediazione della letteratura. E senza, della letterat[…]