da Redazione Downtobaker
Prendendolo in giro gli dico che ha “preso per il naso” Dante. In effetti, è così. Il pretesto de Il naso di Dante (Neri Pozza, 2018), un volume che sta in una mano ma squaderna un mondo, scritto con piglio sapido e sapiente da Pier Luigi Vercesi – a me ha ricordato, e non soltanto per i supporti fotografici, W.G. Sebald e i granitici reportage di Simon Winchester – è proprio il naso. Secondo l’iconografia nota – e resa pop –, infatti, Dante è il tizio con il naso aquilino, arcigno; invece, nel 1840, Seymour Stocker Kirkup, eccentrico inglese con rendita che gli consente vita ‘artistica’, amico di William Blake (“anche se, dopo la morte dell’artista visionario… ammetterà di aver trascorso molte ore in sua compagnia semplicemente per sfidare le convenzioni”), scopre che in un ritratto di Dante realizzato da Giotto il divin poeta non ha una nappa uncinata grossa così, ma un nasino dolce, docile. Da questa scoperta, precipitiamo, in gita vertiginosa, tra fedeli d’amore e templari redivivi, spiamo le alchemiche esegesi pittoriche di Dante Gabriel Rossetti, fondatore dei Preraffaelliti e figlio di Gabriele Rossetti, italiano, dantista effervescente, per poi passare in Canton Ticino, nel 1944, tra le file antifasciste, spalla a spalla con Luigi Santucci, lo scrittore nato un secolo fa. Nel libro di Vercesi – che esplora, in modo smagliante e narrativo, le diverse e difformi esegesi della ‘Commedia’ – si alterna la quinta medioevale a quella recente, ci imbattiamo in René Guenon, in Benito Mussolini, nel massone Dmitrij Merezekovskij, dantista all’eccesso. Tutti – e mettiamoci anche i poeti, da Thomas S. Eliot a Ezra Pound e Osip Mandel’stam, fino a John Kinsella, il poeta australiano che riscrive una ‘Divina Commedia’ nel bush australiano – a cercare di capire il significato segreto e riposto in un poema che supera, evidentemente, i confini del verbo umano. Un inno a Dante e al dantismo spregiudicato (con fitta bibliografia in calce), quello di Verc[…]