Dov’è andato a finire il rispetto? Questa, lo so, sembra una domanda da vecchie signore. Ma, poiché non mi dispiace giocarmela ogni tanto da vecchia signora, è una domanda che mi sento autorizzata a pormi, e a porvi, anche se non esattamente in questi termini stizziti. La prendo da un altro verso, invitandovi a formulare una definizione esauriente del termine “rispetto”. Riuscirci non è facile come sembra. Su, concedetevi qualche secondo per pensarci.
“Sentimento e atteggiamento di riguardo, di stima e di deferenza, devota e spesso affettuosa, verso una persona”, dice il vocabolario Treccani. E poi: “Sentimento che porta a riconoscere i diritti, il decoro, la dignità”. E ancora: “Osservanza, esecuzione fedele e attenta di un ordine, di una regola. Infine: riguardo, considerazione, attenzione”.
La definizione del termine è ampia. Considera ogni possibile ambito a cui l’idea e la pratica di quello che intendiamo per “rispetto” si può estendere: le relazioni tra persone. Le buone pratiche della convivenza. L’osservanza delle regole. Più in generale, il prestare attenzione a quanto ci sta attorno. Eppure, anche a leggerla nella sua interezza, sembra che manchi qualcosa.
Vabbé, torno alle origini, abbandono la ricerca in rete, apro il vecchio vocabolario di latino e vado a pescare il verbo respĭcĭo, da cui deriva l’italiano rispetto. Il verbo significa, guarda un po’, guardare, guardare indietro, voltarsi a guardare.
Guardare
Questo è un ottimo punto: il guardare. Se ti rispetto, vuol dire che prima di tutto ti vedo. E che ti guardo, e non una volta sola. Se ti guar[…]