Cultura Letteratura

Cosa significa essere scrittori (e lettori) europei

di Alessandro Raveggi.

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Foto Getty

«Andiamo incontro al tempo come esso ci cerca», così un’epigrafe da Shakespeare apriva quella meravigliosa autobiografia sull’Europa e il suo tempo che Zweig scrisse e pubblicò postuma: Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo. In questi giorni di grande affanno per l’Unione, mangiata al suo interno dal cancro del populismo, in cui veramente siamo ricercati dai tempi bui, mi è venuto in mente spesso Zweig: il suo sguardo tragico su quel Novecento che avrebbe cancellato un mondo apparentemente libero a suon di guerre, stermini e deportazioni.

Ma come si fa oggi a essere europeisti e ottimisti a un tempo? Dichiarandosi soddisfatti di quello a cui siamo arrivati, e anche, diciamolo se volete a voce bassa, orgogliosi di un modello che ha saputo garantire libertà e benessere ad una fascia molto estesa della popolazione, in un modo inedito nella storia umana? Dovrebbero, gli scrittori della mia generazione, cioè i nati attorno agli anni ‘80 del Novecento, difendere questo modello di pace, che ha anche coinciso con il loro coming of age, oppure no? E se sì: perché questo silenzio? A mio avviso, abbiamo di fronte a noi un bene da difendere, da criticare, certo, ma anche da sostenere, al di là delle nostre distinte appartenenze politiche, liberali, di sinistra, di centro, di destra, che siano.

Ho colto ad esempio con grande entusiasmo la notizia che nel programma di quest’anno del festival letterario a Londra organizzato da scrittori italiani (il FILL, acronimo di “Festival della Letteratura Italiana a Londra”, e nato proprio a reazione delle temperie post-Brexit) l’italiano Nicola Lagioia e il francese Mathias Énard abbiano dialogato sulle sorti del romanzo europeo, e non solo. Ce ne sarebbe da farne di più di cose così: parlare apertamente dello stato di salute della narrazione del nostro popolo europeo (pieno di differenze e contrasti), dei nostri confini fisici ma anche linguistici, dei sentimenti inespressi e di quelli oramai saturati. Ma il tempo, per riprendere ancora lo Shakespeare di Zweig, corre verso di noi di gran lena; ed è un tempo imbruttito, difficile da raccontare, se non in modo sospeso, ritmato e poetico, come Ali Smith nel suo Autumn, sempre reagendo al gorgo post-referendario.

Le prossime elezioni europee a maggio 2019, potrebbero essere la pietra tombale di molte certezze, la finale. E chi se ne frega di Juncker e dei grigi burocrati attempati, che saranno sempre e comunque incomprensibili ai più, con le loro slide e i loro report mensili? Sto parlando di libertà (anche editoriali), di diritti che sono anche servizi garantiti al cittadino, di politiche d’inclusione (magari da rivedere), di tutti quei valori (la lista è lunga) che mi ha consegnato l’essere (e il dover essere) europeo, anche solo in forma minimale. Cosa possiamo fare per evitare il crollo di questo modello? Prima di tutto, raccontarci la nostra storia di oggi quasi quarantenni europei.

La mia prima esperienza “da europeo” la potrei far coincidere coi vent’anni appena compiuti, nei primi 2000, grazie alla oggi vituperata esperienza Erasmus. La mia ragazza allora era di vicino Granada, e quella mia avventura fu formativa e amorosa assieme; come dovrebbero esserlo tutte, se si potesse, le esperienze formative. Partendo dall’arroccata Granada, ci fu un momento in cui mi misi alla ricerca dello spettro di William Burroughs fino a Tangeri, passando per Gibilterra e le inquiete città di Ceuta e Melilla, simboli di quella “Fortres[…]

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