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O capitano!

Il 20 settembre 2014, per la prima volta in vita mia, ho avuto l’opportunità di incontrare di persona lo scrittore e semiologo Umberto Eco. Il sogno si è realizzato in occasione dell’attribuzione al professore del Premio FriulAdria “La storia in un romanzo”, giunto alla sua VII edizione e promosso dalla Fondazione Pordenonelegge in collaborazione con il festival èStoria di Gorizia.

di Terry Passanisi

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Umberto Eco nel salotto della sua casa milanese

Ci sono sogni che, per quanto a occhi aperti, l’appassionato di un genere si porta dietro tutta la vita; fin quando, almeno, non ha la possibilità di esaudire quel sogno, sempre che ciò avvenga, esso rimane costantemente vivido nel profondo dell’anima. Così gli amanti di uno sport, un giorno, bramano di poter incontrare il loro campione preferito, i grandi viaggiatori di visitare il luogo che li fa volare con l’immaginazione, gli sfegatati della musica di poter finalmente collezionare il rarissimo vinile autografato della rockstar che idolatrano. Uno dei miei sogni – anche se è più corretto definirlo l’incontro che più di ogni altro avrei sempre voluto fare, da quando, dodicenne, rimasi folgorato dal romanzo più conosciuto di Eco, “Il nome della Rosa” – è sempre stato quello di poter incontrare di persona l’illustre autore, e poter scambiare con lui qualche battuta a riguardo, nonostante sia risaputo quanto gli sia antipatica, in una misura non ben definita, quell’opera.

Nonostante fossi molto giovane la prima volta che lo lessi, ricordo che trovai nel romanzo tutto ciò che potevo desiderare da un testo di narrativa, innamorandomi senza compromessi di quella disamina sulla natura umana, costruita attorno a molteplici piani di trama – come, tecnicamente, appresi solo molto tempo dopo, leggendo ogni singolo saggio esistente sul romanzo. Fui colpito soprattutto dal modo in cui lo scrittore Eco aveva saputo racchiudere la varietà di generi narrativi, abbracciando l’immensità dell’esistenza in una sola opera: il giallo all’inglese, i dogmi spirituali, l’Amore come potenza superiore, la Storia, i sentimenti più bassi dell’Istinto e quelli più alti del Sublime; la saggistica romanzata. Un romanzo ricolmo di saggi, saturi di invenzioni narrative. C’era l’insoluto universale di ogni speculazione filosofica, assieme ai massimi sistemi ispirati dalla volta celeste. Quel libro, come egli stesso asseriva, è tanti libri che invocano altri libri. Perché quell’opera è un tomo di Storia, un’enciclopedia medievalista redatta da una complessa filologia funzionale al millesimo alla trama, anzi, alle trame. E svela segreti celati nell’indole mistica e metafisica propria degli esseri umani.

Eco, insomma, riuscì a stregarmi e, da allora, con immutata ammirazione, penso sempre a lui come a uno dei più grandi scrittori di tutta la storia; anche se mi rendo conto che, scrittore e semiologo illustrissimo, nonché teorico del linguaggio letterario e filosofico, data l’importanza che ha rivestito per almeno cinquant’anni nella cultura italiana e internazionale, non abbia bisogno di scontate adulazioni.

Avvertire dentro per tanto tempo il desiderio d’incontrarlo, alimentato sempre più negli anni dalla lettura delle sue ulteriori pietre miliari (“Il pendolo di Foucault” o “Baudolino” o “Il cimitero di Praga”, mi limito ai romanzi), però, è un’arma a doppio taglio. Al sopraggiungere del tanto agognato appuntamento, quel tormento voluttuoso ti fa sentire come un qualsiasi Adso da Melk, nell’istante in cui vorrebbe osare chiedere al suo mentore dei grandi misteri dell’Amore. Quali domande rivolgergli? In che modo renderle appropriate e non ridondanti, non scontate ma originali e desiderabili? Certo che, al confronto con una delle menti più illustri del mondo letterario dell’ultimo secolo, soprattutto quando come me si covano aspiranti mire da scrittore, non ci si può sentire che inesperti novizi impacciati alle prese con i lacci di una stratificata veste femminile.

La conferenza stampa di presentazione del premio, riservata solo ai giornalisti, è indetta all’Hotel Moderno di Pordenone alle ore 17.30 precise. Il Professore arriva puntuale e si accomoda nel salottino della hall, in attesa di un cenno dai responsabili stampa; e dell’arrivo della scrittrice Margaret Atwood, con la quale scambia due parole in inglese – vorremmo farlo tutti. Dopo quel ritrovo più unico che raro, ci muoviamo all’unisono dietro di lui, verso la sala conferenze. Organizzatori e giornalisti insieme, lo accompagniamo in sala stampa, ed è finalmente giunto il momento di scoprire e conoscere com’è l’uomo Umberto Eco, faccia a faccia. Se fosse antipatico, schivo e restio alle curiosità di chi vorrebbe conoscerlo a fondo? Quale grande delusione sarebbe per me scoprirlo distante, repulsivo, disinteressato agli incontri, vanitoso oppure scontroso (ma no, già alcuni amici, suoi allievi all’università di Bologna, mi avevano raccontato quanto fosse affabile e disponibile). Avevo già riflettuto più volte su questo dubbio, appurato in passato, con risultati alterni, a proposito di altri personaggi e artisti di fama che avevo avuto il privilegio, o meno, d’incontrare. E, invece, com’è il grande umanista inseguito per tanto tempo, di persona? A essere sincero avevo già fugato ogni dubbio, non appena mi era apparso davanti. Non poteva che rivelarsi per come l’avevo sempre immaginato e sentito descrivere. Non avrebbe che potuto confermare la disponibilità e l’affabilità che gli avevo sempre attribuito. E avrebbe confermato la sua grandezza: la conoscenza universale ed enciclopedica, la profonda comprensione della natura umana; la similitudine con la bonarietà, la scaltrezza e l’impareggiabile sense of humor dei suoi indimenticabili personaggi letterari. C’è una cosa di cui sono assolutamente convinto, e che ho imparato nel tempo, sempre meglio, leggendo i più grandi autori classici: Shakespeare, Melville, Poe, Sue, Thoreau, Twain, Swift, Proust, Calvino, Buzzati, per citare i migliori. Lo stesso Eco, che ascrivo alla nobile cerchia, senza distinzioni. Questa convinzione è che ogni uomo, intriso della sostanza della Conoscenza e dell’Arte, della Storia e della Filosofia, delle capacità analitiche dell’Illuminismo e della disponibile grandezza del proprio sentire e ascoltare, che a sua volta si è nutrito delle stesse geniali sostanze di coloro che lo hanno preceduto, non può che essere immenso come essere umano.

Mentre i giornalisti lo incalzano con domande più o meno interessanti, talora volutamente critiche o debolmente ironiche, altre prettamente didascaliche e di pura cronaca, il professor Eco dà prova di quanto somigli al metodico e sottile Guglielmo da Baskerville mutuato da Sherlock Holmes. Quanto sia scaltro e tagliente, ma disponibile e generoso nelle risposte, abbracciando simbolicamente tutti gli intervenuti alla conferenza, nutrendoli di quella linfa vitale che solo illimitate erudizione e sensibilità possono far sgorgare. Egli non azzanna ma non rifiuta la sfida, non si nasconde, non lascia né con l’amaro in bocca né con domande irrisolte o con risposte accomodanti; accetta il confronto con indomabile energia, godendosi la chiacchierata, anche quando gli chiedono, con una sferzata inefficace, come sia la vita da pensionato. Non si illudano mai i lettori, o i suoi detrattori, che uno scrittore possa andare in pensione; c’è pur sempre qualcosa da scrivere. Anzi, tre volte tanto. Scherza, ironizza. Quando una domanda lo merita, la annichilisce con un semplice No!, imperioso, stop. Eppure si sofferma, riflette e rilancia, esaudendo tutte le curiosità, anche le più banali e ripetitive, di ognuno dei suoi ammiratori; perché non credo di sbagliarmi nell’identificare, nella totalità dei professionisti dell’informazione presenti, soprattutto indomiti e accaniti fan.

Sempre con grande puntualità, grazie a un’impeccabile organizzazione del Festival, si tiene alle 18.30, al Teatro Verdi invece, la lectio magistralis improntata sul romanzo a sfondo storico, come titolo del premio da attribuire vuole. Mi siedo sulla poltrona che mi è stata assegnata; non sono in platea, ahimè, ma in prima galleria, lontano. Mi dispiaccio fra me e me della posizione, dato che mi sarebbe piaciuto essere un po’ a favore di palco e della mia miopia, e per scattare qualche foto. Un po’ avvilito attendo l’inizio, fintanto che accanto a me si accomoda una bellissima ragazza dai capelli lisci e mori, dagli occhi neri e profondi, che mi strega con un sorriso che ricambio senza esitare. È allora che inquadro appieno l’Umberto Eco romantico e ciò che ho fatto mio, leggendolo; l’intellettuale stregato dalle bellezze femminee e non solo teoretiche che, di tutta la sua esistenza, non ricorda tanto i premi ricevuti dai mirabolanti festival tedeschi quanto, piuttosto – evento evocato con voce profonda e (im)percettibilmente addolcita –, il matrimonio avvenuto in Germania con la moglie Renate Ramge.

Fa piacere sentirgli dire di essere un europeista convinto, che prova ataviche emozioni quando, viaggiando attraverso due stati, sul confine segnato da un muro, non è più costretto a esibire un lasciapassare o a fermarsi a una sbarra abbassata come vent’anni prima. Arrivato sul palco tra interminabili applausi, Eco inizia a narrare la lezione, volta a comprendere i molteplici piani di lettura che i personaggi di un romanzo istituiscono: i personaggi storici, quelli realmente esistiti, contrapposti a quelli di finzione, collocati all’interno di un reale periodo storico. È fondamentale, l’analisi, per capire quanto i protagonisti storici, realmente esistiti, possano esserci stati tramandati stravolti e fasulli da scrittori che li hanno protratti arbitrariamente. A differenza dei personaggi di finzione, che canonizzati all’interno della loro vicenda, del loro universo finito, con criteri inopinabili, mai più, potrebbero essere controvertiti in alcun modo, né da opere apocrife né, tantomeno, da pretestuose tesi di laurea con lo scopo di risultare originali. Ognuno di noi, presente in sala, vorrebbe interromperlo e muovergli l’obiezione che – paradosso al quale il Professore già risponde nello stesso enunciato – finché ci sarà la possibilità di parlare con l’autore stesso, egli potrà dirci che fine ha fatto la Sacra Sindone contraffatta da Baudolino, per esempio. Ed è proprio questo il vero paradosso; perché la nostra smania, di saperne ancora e ancora, non ha nulla a che fare con quanto ogni personaggio di finzione sia (de)finito; è piuttosto quello stesso desiderio voluttuoso di saperne, e poterne sapere, ancora e ancora, attraverso l’autore che adoriamo. Nessuno, allora, potrebbe spezzare l’incantesimo che si è venuto a creare: si ascolta la magistrale lezione senza che voli una mosca, pendendo da quelle parole; perché è così che la nostra anima di lettori innamorati dei capolavori di Eco può riassaporare le emozioni inebrianti, provate mentre ci perdevamo nelle vicende dei suoi romanzi, sentendolo dalla stessa (e vera) voce di Guglielmo da Baskerville. Finalmente.

Termina la conferenza e, all’uscita del Teatro, c’è il momento dell’incontro personale più agognato, in cui si approfitta della sessione autografi. Avendo l’accredito stampa, e la dritta giusta, ho la fortuna di arrivare al banchetto prima degli altri. Eco è più cordiale che mai; gli apro davanti la mia fedele copia del “Nome della rosa” da firmare e lo ringrazio vivamente per aver prodotto quel miracolo letterario, insieme a tutti gli altri. Mentre gli stringo la mano, preso quasi in contropiede, forse percepisce quanto significhi per me quell’opera, assieme alla possibilità finalmente di dirglielo; mi ringrazia, alza lo sguardo e mi dice quanto ami guardare negli occhi le persone che incontra: in quel contatto gli leggo la profondità dell’anima e tutta la sincerità di ciò che sta dicendo.

Non c’è altro tempo purtroppo, perché, in quei brevissimi istanti, dietro di me, si sono già accalcate centinaia di persone spinte dal mio stesso desiderio di incontrarlo. Vado e mi allontano felice. Non potrei volere di più, sapendo di avere stretto la mano contemporaneamente ad Aristotele, Guglielmo d’Occam, Tommaso d’Aquino, poi a Sue, Hugo, Thoreau, Proust, Borges, Joyce e Kant. Per quanto egli ne porti l’eredità, per quanto egli sia uno di loro. Uno dei più grandi, che rimarrà per sempre. A pensarci, tutte le volte mi emoziono ancora e quel ricordo non può che diventarmi confuso e sfocato. Pare così lontano, appena volto l’angolo dove l’ho incontrato. E ora che mi ritrovo a scriverne, sperando di non dimenticare nulla, con la mano che mi trema ancora come appena prima di stringere la sua, sento il petto pulsarmi pieno d’orgoglio.

Eppure di quel grande incontro, la sola cosa che riesco a ricordare con chiarezza, senza smarrimenti, sono gli occhi bellissimi e profondi della fanciulla mora che mi sedeva accanto in teatro, della quale “non sapevo, e non seppi mai, il nome.”


Umberto Eco a Pordenonelegge nel 2014 (Lectio integrale)

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