di Terry Passanisi (libero adattamento di “Can reading make you happier?” di Ceridwen Dovey)

Diversi anni fa ho ricevuto un regalo piuttosto originale: una sessione via PC con un libroterapista dalla sede londinese della “School of Life”, che offre corsi di tipo innovativo allo scopo di aiutare le persone ad affrontare le sfide emotive più comuni dell’esistenza. Devo ammettere che all’inizio ero molto scettico: mi sembrava di dovermi sottoporre a una vera e propria prescrizione di… lettura. Avrei preferito emulare da me la devozione di Virginia Woolf per la serendipità, scoprendo il mio percorso personale di lettura, non solo nella delizia dei libri stessi ma nella natura casuale e apparentemente più significativa di come mi sarei imbattuto in loro: sull’autobus dopo aver litigato con la mia ragazza, in un ostello di quarta categoria a sessanta chilometri dal centro di Roma, o negli scaffali di una minuscola biblioteca buia scoperta per caso mentre mi sono perso col cellulare scarico. La diffidenza per l’evangelizzazione di nuovi lettori mi rimane ancora oggi: leggi questo e quest’altro, sento dire ai missionari che ti mettono libri tra le mani con uno scintillio mefistofelico negli occhi, senza tenere conto del fatto che ogni libro è in grado di assumere significati diversi per ogni lettore, a seconda del punto della vita in cui egli si trova. Per esempio, io a vent’anni ho adorato le Maples Stories di John Updike, e sono quasi sicuro di odiarle a quaranta, e non so nemmeno dire il perché.
Tutto sommato la seduta è stata un regalo originale, e mi sono ritrovato inaspettatamente a gradire il questionario iniziale sulle mie abitudini letterarie, inviatomi dalla libroterapista Ella Berthoud. Nessuno mi aveva mai fatto prima domande di quel tipo, anche se leggere romanzi è sempre stata la prima passione della mia vita. Adoro divorare più capitoli in lunghe sessioni di lettura; nei traslochi ho il quadruplo degli scatoloni di libri rispetto a quelli di vestiti, le ho dichiarato con voluttuoso trasporto. Le ho confidato il mio piccolo segreto di Pulcinella, e cioè che non mi piace prendere i libri in prestito dalla biblioteca, ma preferisco comprarli e possederli (qualche volta ho ceduto al fascino del furto, raramente, ma perfino Umberto Eco ha ammesso quanto questa debolezza sia lecita in un bibliofilo che si rispetti), e la biblioteca la voglio avere in casa, tutta mia. Alla domanda di tutt’altra natura “Cosa ti preoccupa in questo momento?” sono rimasto interdetto e sorpreso da ciò che avrei voluto rispondere: sono preoccupato dal non avere sufficienti risorse spirituali per fronteggiare l’inevitabile futuro dolore di perdere qualcun altro che amo. Non sono credente, e non ne sento affatto il bisogno, ma mi piacerebbe leggere molto di più sulle riflessioni di altri a proposito del raggiungimento di una qualche prima, strana forma di fede in un essere superiore, come stratagemma di sopravvivenza emotiva. Rispondere con spontaneità alle domande mi ha fatto sentire meglio, più leggero.
Dopodiché c’è stato uno scambio di messaggi di posta elettronica avvincente, con la Berthoud che ha cercato di scavare più a fondo, chiedendomi della storia della mia famiglia e del mio terrore nei confronti della perdita e dell’abbandono. Quando mi ha inviato la prescrizione finale delle letture questa era piena di titoli preziosi, nessuno dei quali mi era già passato per le mani. Tra le raccomandazioni c’era “Raju della ferrovia”, di R.K. Narayan. La Berthoud mi aveva scritto che era “una storia adorabile su di un uomo che inizia la vita lavorativa come guida turistica in una stazione ferroviaria di Malgudi, in India, ma poi passa attraverso molte altre occupazioni prima di trovare il suo inaspettato destino come guida spirituale”. L’ha scelto nella speranza che potesse farmi sentire “stranamente illuminato”. Un altro suggerimento era “Il Vangelo secondo Gesù Cristo”, di José Saramago: “Saramago non rivela la sua posizione spirituale nel libro, ma ritrae una versione vivida e avvincente della storia che tutti conosciamo fin troppo bene”. “Il re della pioggia”, di Saul Bellow, e “Siddhartha”, di Hermann Hesse, erano le altre opere di fiction prescritte, oltre agli scritti di saggistica come “The Case for God”, di Karen Armstrong, e “Sum”, del neuroscienziato David Eagleman, un “breve e meraviglioso libro sui possibili aldilà”.
Mi sono impegnato a leggere i libri della lista nei successivi due anni, al mio ritmo – spesso intervallati dalle mie scoperte – e, mentre sono stato abbastanza fortunato nel non dover affrontare di nuovo il dolore specifico di cui sopra, almeno finora, alcune delle intuizioni che ho tratto da quei libri mi hanno aiutato a gestire in modo completamente diverso, quando alcuni mesi fa l’ho dovuto sopportare, un grandissimo e definitivo abbandono d’amore. Le intuizioni stesse, per il loro genere, mi sono ancora nebulose, come lo è spesso l’apprendimento ricevuto dalla lettura di narrativa, ma in ciò consiste il suo enorme potere. In un’epoca strutturata come la nostra, ho il sospetto che leggere grandi romanzi sia rimasto uno dei pochi percorsi trascendentali, quello stato fuggevole in cui la distanza tra il sé e l’universale si riduce al minimo. Leggere narrativa fa perdere il senso proprio del sé, ma allo stesso tempo rende più unicamente se stessi. Come scrisse Virginia Woolf, tra i più ferventi lettori di ogni epoca, un libro “ci separa in due parti mentre lo leggiamo”, poiché “lo stato del leggere consiste nella completa eliminazione dell’ego”, e promette “un’unione perpetua” con un’altra mente.
Col termine libroterapia (in inglese bibliotherapy) si indica una disciplina molto più articolata rispetto all’antica pratica di incoraggiare la lettura a scopo curativo. Il primo utilizzo del termine si può riscontrare in un articolo americano del 1916 del The Atlantic, “A Literary Clinic”, di Samuel McChord Crothers; mentre da noi, in Italia, è relativamente nuovo. Qui, la pratica della libroterapia, rispetto ai paesi anglosassoni, è ancora poco diffusa. I motivi sono prettamente culturali: uno di questi potrebbe riferirsi al fenomeno dell’analfabetismo che ha perversato in Italia fin oltre la prima metà del XX secolo, oppure al fatto che la Chiesa cattolica sconsigliasse ai fedeli, almeno fino al 1965, una scelta autonoma delle letture. Nell’articolo americano, l’autore descrive come gli capitò d’incappare in un istituto di bibliopatia gestito da un conoscente, tale Bagster, nel seminterrato della sua chiesa, da dove era solito dispensare raccomandazioni letterarie di grande valore terapeutico. “La libroterapia è… una nuova scienza!”, gli spiegava Bagster. “Un libro può funzionare sia da stimolante che da sedativo, da eccitante oppure da soporifero. Il punto è che deve fare effetto su di te, e solo tu puoi sapere quale sia la necessità del tuo caso. Un libro può avere la stessa natura di uno sciroppo calmante oppure la stessa natura di un cerotto a base di senape”. A un cliente di mezza età con “opinioni parzialmente cristallizzate”, Bagster fece la seguente prescrizione: “Devi leggere più romanzi! Storie il meno piacevoli possibile che ti facciano dimenticare come sei. Devono rimestare assolutamente nel torbido, in argomenti drastici e pungenti, senza speranze”. George Bernard Shaw era in cima alla lista delle letture. Bagster venne interpellato infine per trattare un paziente che era “in overdose da letteratura di guerra,” lasciando l’articolista a riflettere su tutti quei libri che “iniettano in noi nuova linfa vitale, per renderci più forti e stravolti”.
Oggi la libroterapia esiste in molteplici forme: si va dai corsi di letteratura per detenuti fino ai circoli di lettura per anziani affetti da demenza. Può riguardare più semplicemente sessioni di gruppo o individuali per lettori non praticanti che vogliono ritrovare l’abbrivo al piacere per i libri. La Berthoud e la sua cara amica e collega libroterapista Susan Elderkin praticano in prevalenza la libroterapia definita affettiva, sostenendo il potere riparatore, nello specifico, dato dalla narrativa. Si sono conosciute all’Università di Cambridge da laureande, più di vent’anni fa, e hanno trovato subito una grande intesa non appena si sono accorte di quante cose condividevano negli scaffali delle loro piccole librerie, in particolare il romanzo di Italo Calvino “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, che ha come tema principale la natura stessa del leggere. Man mano che la loro amicizia è andata consolidandosi, hanno iniziato a prescriversi reciprocamente romanzi per curare i disturbi di un cuore spezzato o per l’incertezza della carriera. “Quando Suse stava vivendo una crisi professionale – voleva diventare una scrittrice, ma si chiedeva se avrebbe saputo far fronte agli inevitabili rifiuti della pubblicazione – le prescrissi delle poesie, ‘Archy and Mehitabel’, di Don Marquis,” mi aveva raccontato la Berthoud. “Se Archy lo scarafaggio poteva essere così dedito alla sua arte da poter balzellare sui tasti della macchina da scrivere, pur di buttar giù i versi liberi delle sue poesie, ogni notte, negli uffici newyorkesi dell’Evening Sun, allora anche lei avrebbe potuto essere pronta a soffrire per l’arte”. Qualche anno dopo, la Elderkin prescrisse alla Berthoud, intenta a capire come bilanciare la sua vita da pittrice con una madre invadente, il romanzo di Patrick Gale “Notes from an Exhibition”, su di un’artista di successo, alquanto tormentata.
Hanno continuato a consigliarsi romanzi l’un l’altra, quindi ad amici e parenti, per molti anni, e, nel 2007, quando lo scrittore Alain de Botton, un ex compagno di classe di Cambridge, stava pensando di fondare la “School of Life”, hanno accolto la sua idea di mettere in piedi una clinica di libroterapia. “Per quanto ne sapevamo, nessuno lo stava mettendo in atto proprio in quella forma, in quel momento,” ha detto la Berthoud. “La libroterapia, se già esisteva, tendeva a basarsi su contesti prettamente medici, dedicandosi all’utilizzo esclusivo di manuali di auto-aiuto. Noi, invece, ci siamo dedicate ai romanzi, considerandoli la cura definitiva capace di dare ai lettori un’esperienza di trasmutazione”. Berthoud ed Elderkin, nel frattempo, hanno fatto risalire la pratica della libroterapia indietro nel tempo fino agli antichi greci, “che scrissero sopra l’ingresso di una biblioteca di Tebe che quello era il Luogo della guarigione dell’anima”. La pratica mostrò di nuovo le proprie tracce alla fine del XIX secolo, quando Sigmund Freud iniziò a usare la letteratura nelle sessioni di psicoanalisi. Dopo la Prima guerra mondiale, ai soldati traumatizzati che tornavano a casa dal fronte veniva prescritto un corso di lettura. “I bibliotecari degli Stati Uniti ricevettero una formazione specifica su quali libri dare ai veterani di guerra, e c’è un’affascinante storia sui romanzi di Jane Austen usati a scopo libroterapico nel Regno Unito, sempre in quel periodo,” ricorda Elderkin. Decenni più tardi, la libroterapia fu usata in vari modi negli ospedali e nelle biblioteche, e più recentemente è stata ripresa dagli psicologi, dagli operatori sociali che si occupano della terza età e da tutti i medici che la ritengono una valida modalità terapeutica.
Oggi esiste una rete di libroterapisti selezionati e formati da Berthoud ed Elderkin e affiliati alla “School of Life”, che lavorano in tutto il mondo, da New York a Melbourne. Ce ne sono anche in Europa. Le afflizioni più comuni che le persone tendono a presentare loro sono i momenti di transizione che collegano le varie fasi della vita, afferma Berthoud: ritrovarsi bloccati in un passaggio obbligatorio della carriera, sentirsi depressi in una relazione, soffrire per un lutto. I libroterapisti incontrano anche molti pensionati che sanno di avere ancora vent’anni di letture davanti, ma che in precedenza hanno letto solo gialli tascabili e vogliono scoprire qualcosa di nuovo che li possa sostenere. Molti cercano aiuto per adattarsi alla nuova vita da genitori. “Avevo un cliente di New York, un uomo che stava per avere il suo primo figlio, ed era preoccupato dalla responsabilità per un altro essere umano così indifeso,” dice Berthoud. “Gli ho raccomandato ‘Room Temperature’, di Nicholson Baker, che parla di un uomo che allatta il suo bambino dal biberon e nel frattempo medita sull’essere padre. E naturalmente ‘Il Buio oltre la Siepe’, perché nella letteratura Atticus Finch è il padre ideale”.
Berthoud ed Elderkin sono anche le autrici di “Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno”, che è redatto nello stile di un dizionario medico e fa combaciare i malanni (“fallimento, sentirsi come un fallito”) con i relativi consigli di lettura (“Storia di un uomo che digeriva male”, di H.G. Wells). Uscito per la prima volta nel Regno Unito nel 2013, è stato pubblicato in diciotto paesi e, in un’opzione interessante, il contratto permette all’editore locale capace di consigli di lettura di adeguare fino al venticinque percento dei malanni e delle raccomandazioni ritenuti più adatti ai lettori di ciascun paese, e può includere inoltre una lista di scrittori nazionali. I nuovi malanni adattati rivelano le idiosincrasie culturali tipiche del tal paese. Nell’edizione olandese, uno dei disturbi adattati è “avere un’opinione troppo alta del proprio figlio”; nell’edizione indiana sono inclusi la “minzione in pubblico” e “l’ossessione per il cricket”; gli italiani hanno avuto il coraggio di inserire “impotenza”, “paura delle autostrade” e “desiderio di farsi imbalsamare”; i tedeschi hanno optato per “odiare il mondo” e “odiare le feste”. Berthoud ed Elderkin hanno elaborato una versione con consigli di letteratura per bambini, “A Spoonful of Stories”, uscita nel 2016.
Per tutti quegli accaniti lettori che si sono auto-medicati con grandi opere letterarie attraverso tutta la loro vita, non sorprende che questa possa essere la miglior cura per la salute della mente e delle relazioni con gli altri, ma perché e come ciò funziona davvero si sta scoprendo solo negli ultimi tempi, grazie alle nuove ricerche sugli effetti della lettura sul cervello. Dalla scoperta, a metà degli anni ‘90, dei “neuroni specchio” – neuroni che eccitano il cervello sia quando svolgiamo un’azione noi stessi che quando vediamo un’azione compiuta da qualcun altro – la neuroscienza che studia l’empatia è diventata più chiara. Uno studio del 2011 pubblicato sull’Annual Review of Psychology, basato sull’analisi delle scansioni cerebrali dei partecipanti al fMRI, ha dimostrato che, quando le persone leggono qualcosa su di un’esperienza, la stimolazione all’interno delle regioni neurologiche è la stessa di quando l’esperienza viene vissuta in prima persona. Inoltre, attingiamo dalle stesse reti cerebrali sia quando leggiamo storie che quando cerchiamo di indovinare i sentimenti di un’altra persona.
Altri studi pubblicati nel 2006 e nel 2009 hanno dimostrato qualcosa di simile: le persone che leggono tantissima narrativa tendono a essere più empatiche rispetto alle altre (anche dopo che i ricercatori hanno considerato il potenziale pregiudizio per il quale le persone con maggiori tendenze empatiche preferiscono leggere romanzi). E, nel 2013, uno studio alquanto influente pubblicato su Science ha rivelato che leggere letteratura di narrativa (piuttosto che fiction di altro genere o letteratura di saggistica) ha migliorato i risultati dei partecipanti nei test che misurano la percezione sociale e l’empatia, cruciali nella “teoria della mente”. Che cos’è questa teoria? È l’abilità di cogliere con precisione ciò che un altro essere umano può pensare o percepire in una determinata situazione, un’abilità che gli esseri umani iniziano a sviluppare in modo embrionale intorno all’età di quattro anni. È fondamentale in ogni interazione sociale e serve ad analizzare, giudicare e comprendere il comportamento degli altri.
Keith Oatley, romanziere, nonché professore emerito di psicologia cognitiva alla Toronto University, ha gestito per molti anni un gruppo di ricerca interessato alla psicologia della narrativa. “Abbiamo iniziato a dimostrare come si verifica l’identificazione con i personaggi di finzione, come l’arte letteraria migliori le abilità sociali, come può toccarci emotivamente e in che modo solleciti i cambiamenti dell’individualità,” ha scritto nel suo saggio del 2011, “Such Stuff as Dreams: The Psychology of Fiction”. “La fiction è una sorta di simulazione, che non funziona nei computer ma nelle menti: una simulazione dei sé nelle loro interazioni con gli altri sé nel mondo sociale […] basata sull’esperienza e che implica la capacità di pensare ai possibili futuri”. Questa idea fa riecheggiare una convinzione sostenuta da tempo tra gli scrittori e tra i lettori, cioè che i libri sono il miglior genere di amico che si possa avere; essi ci danno la possibilità di provare ogni tipo di interazione con gli altri in tutto il mondo, senza il rischio di compromissioni o danni irreparabili. Nel suo saggio del 1905 “Sulla lettura”, Marcel Proust lo descrive con la sua proverbiale perfezione: “Con i libri, niente convenevoli. Passiamo la serata con questi amici – i libri – perché lo desideriamo davvero. Loro, almeno, spesso li lasciamo a malincuore. E quando li abbiamo lasciati, non viene nessuno di quei pensieri che guastano l’amicizia: ‘Che cosa avranno pensato di noi?’ – ‘Non avremo mancato di tatto?’ – ‘Saremo piaciuti?’. Non ci viene nemmeno la paura di essere dimenticati per qualcun altro”. Ancora oggi “Alla ricerca del tempo perduto” rimane il più grande romanzo mai scritto e la più esaustiva disamina sulla natura umana introspettiva e interpersonale.
Leggenda vuole che l’autrice di “Middlemarch”, George Eliot, abbia superato il dolore di aver perso il compagno di una vita grazie a un programma di letture guidate, assieme a un giovane che è poi diventato suo marito; ha tenuto fede al fatto che “l’arte è la cosa più vicina alla vita; è un modo per amplificare le esperienze, di estendere il contatto umano con i nostri simili oltre i limiti della sfera personale”. Non tutti, naturalmente, sono concordi con questa caratterizzazione della narrativa, quale potere assoluto che ci fa comportare meglio nella vita reale. Nel suo libro del 2007, “Empathy and the Novel”, Suzanne Keen contesta questa “ipotesi di empatia uguale altruismo” e rimane scettica sul fatto che le connessioni empatiche vissute durante la lettura di un romanzo si traducano per forza in un atteggiamento altruistico e socievole col mondo. Sottolinea anche quanto sia difficile provare davvero tale ipotesi. “I libri da soli non possono cambiarci – e non tutti sono convinti che dovrebbero farlo”, scrive la Keen. “Come ogni topo di biblioteca sa bene, i lettori possono anche apparire antisociali e indolenti, finanche dei misantropi. La lettura di un’opera non è mai uno sport di squadra”. Invece, esorta, dovremmo goderci ciò che la narrativa ci dà: una liberazione dall’obbligo morale di provare qualcosa di simile ai personaggi immaginari – come si farebbe per un vero essere umano in carne e ossa in preda al dolore o alla sofferenza –, il che significa paradossalmente che i lettori a volte “rispondono con maggiore empatia a situazioni e personaggi inesistenti a causa del cosiddetto contesto romanzesco”. Sostiene con tutto il cuore, comunque, i benefici che un’esperienza profonda come la lettura conferisce alla salute di ogni persona, che “consente una fuga rinvigorente da ogni ordinario, dalla routine delle pressioni quotidiane”.
Quindi, anche se non dovessimo trovarci d’accordo col fatto che leggere romanzi aiuta a trattare meglio gli altri, è almeno un modo per trattare meglio noi stessi. È stato dimostrato che la lettura pone il nostro cervello in uno stato di piacevole trance, molto simile allo stato meditativo, e apporta alla salute psico-fisica gli stessi benefici del rilassamento profondo e della calma interiore. Chi legge romanzi con regolarità dorme meglio, ha livelli di stress più bassi, maggiore autostima e valori di depressione più bassi rispetto ai non lettori. “La narrativa e la poesia sono dosi, sono medicinali”, ha scritto l’autrice britannica Jeanette Winterson. “Quello che risanano è la frattura che la realtà provoca all’immaginazione”.
Una delle clienti di Berthoud mi ha descritto quanto il gruppo o le sessioni individuali che ha avuto con lei l’abbiano aiutata a far fronte alle conseguenze di una lunga serie di disgrazie, tra cui la perdita del marito, la fine di un’altra storia lunga cinque anni e, infine, un infarto. “Sentivo che la mia vita era diventata senza scopo,” diceva. “Mi sentivo una donna fallita”. Tra i libri che inizialmente Berthoud le aveva prescritto c’era il romanzo di John Irving “Hotel New Hampshire”. “Era uno degli scrittori preferiti di mio marito, che non mi ero mai sentita in grado di affrontare per questioni sentimentali”. Era rimasta “sbalordita e molto commossa” nel vedere quell’autore nella lista, e sebbene avesse evitato di leggere i libri di suo marito fino a quel momento, trovò che scoprirli sarebbe stata “un’esperienza emotiva molto gratificante, sia per la letteratura in sé sia per la liberazione dai miei demoni interiori”. Ha apprezzato molto, inoltre, che Berthoud l’avesse fatta approdare al romanzo di Tom Robbins “Profumo di Jitterbug”, che “è stato per me una vera parabola di apprendimento riguardo al pregiudizio e alla sperimentazione”.
Uno dei disturbi elencati in “Curarsi con i libri” è “sopraffatto dal numero di libri esistenti al mondo”, che è uno di quelli che – e lo dico davvero con grande sincerità, perché ha molto a che fare con la caducità della vita – mi fa soffrire di più. Elderkin dice che questo è uno dei problemi più comuni nei lettori contemporanei e che rimane una delle principali motivazioni per il lavoro di Berthoud come libroterapista. “Riteniamo che, sebbene vengano pubblicati più libri che in ogni altro tempo, le persone selezionano in realtà da un bacino sempre più piccolo. Da’ un’occhiata alle liste di letture nella maggior parte dei circoli letterari e vedrai sempre gli stessi titoli, quelli che sono stati più spinti dalla stampa e dagli editori più importanti. Se in realtà calcoli quanti libri leggi in media in un anno e quanti ritieni degni di essere letti prima di morire, comincerai a comprendere in che modo selezionarli adeguatamente, così da ottenere il massimo dal tempo a disposizione”. E qual è il modo migliore per farlo? Se non riuscite a venirne a capo da soli, consultate un bravo libroterapista appena potete e recatevi all’appuntamento per glorificare, se non altro, alcune illuminanti righe tratte dal “Tito Andronico” di William Shakespeare: “Vieni a scegliere nella mia biblioteca/E inganna così le tue sofferenze…”.
Splendido. Grazie per la traduzione / adattamento.
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