Racconti

Vino Gramo

"Il labrador abbaiò, era ora di andare. La ragazza si avvicinò alla vetrina chiusa: sulla scansia più in vista c’era una bottiglia di Barbaresco del 1980 su cui poggiava “Il giudice e il suo boia” di Friedrich Dürrenmatt. Nei giorni successivi tutta la città seguì con apprensione le indagini sull'omicidio dell’avvocato Pertich."

di Corrado Premuda

Il titolo campeggiava al centro della prima pagina: “Avvocato trovato morto nel cassonetto a scomparsa”. Con un dito Valentina calzò meglio sul naso gli occhiali dalla montatura verde: era sicura che si trattasse del signore pelato che aveva notato nei giorni precedenti in quel piccolo cocktail bar. L’articolo raccontava di come il cadavere fosse stato scoperto all’alba dagli uomini della nettezza urbana incaricati di vuotare i bottini posti sottoterra nella centralissima piazza della Borsa. Tanti dubbi, una sola certezza: si trattava di omicidio. “Data l’imboccatura stretta dei cassonetti gli inquirenti si domandano come abbia fatto l’assassino a gettarvi dentro la vittima. L’avvocato era già morto o è spirato dopo una lenta, terribile agonia?”

In maniera automatica Valentina ruotò su se stessa e si diresse verso il bar. Il labrador che accompagnava a spasso a metà mattina annusò qualcosa e strattonò il guinzaglio tirandola verso le viuzze dell’antico ghetto ebraico ma la ebbe vinta lei, era troppo curiosa. Mentre fiancheggiava l’ingresso del teatro tornò a sbirciare il giornale: tutta la città stava col fiato sospeso per il mistero di un uomo che lei aveva visto nella sua ultima sera di vita. Posto a metà strada tra il teatro e piazza Unità, il bar a quell’ora era chiuso. Senza i tavoli e le sedie sistemati all’aperto, la sua unica vetrina ad arco quasi scompariva lungo il fianco di Palazzo Stratti. Lei era solita passare lì davanti all’ora dell’aperitivo. Era il momento in cui portava a passeggio la coppia di cocker della signora Bernetti e quella zona pedonale, appena defilata dal chiasso della grande piazza e protetta dai muri chiari degli eleganti palazzi, la accoglieva con un piacevole alito di vento anche nelle giornate più afose. All’ombra di una fila regolare di sottili alberi ornamentali Valentina aspettava che i cani si godessero il loro spicchio di libertà quotidiana mentre i suoi pensieri vagavano sotto la folta riccia capigliatura. Era così che si era accorta dei libri.

A sinistra e a destra della porta a vetri che dava nel bar si aprivano due strette vetrine con quattro piani di mensole ciascuna. Bottiglie di vino dividevano lo spazio espositivo con una decina di libri. Si trattava, per la maggior parte, di romanzi: Umberto Eco, Alessandro Robecchi, Domenico Starnone, ma anche classici del Novecento, autori russi e sudamericani. Valentina faceva attenzione ai dettagli anche se poi non si applicava con costanza nel seguire gli sviluppi di un pensiero, come le aveva fatto notare la professoressa all’esame di storia moderna la settimana prima. Non le era sfuggito, quindi, che i libri in vetrina cambiavano ogni giorno. A volte cambiavano solo di posto, salivano o scendevano da una scansia all’altra, spesso venivano sostituiti da un altro titolo con una frequenza che nemmeno le librerie più agguerrite si sognavano. In particolare era la mensola alla sinistra della maniglia della porta, quella su cui lo sguardo di un attento avventore sarebbe con buona probabilità caduto, che presentava quotidianamente un volume diverso. Il fatto aveva permesso ai riccioli di Valentina di fantasticare sul barman, un giovane uomo dai modi eleganti, sorriso contagioso, capelli e camicia neri, e una spiccata passione per i libri. Se non era impegnato a servire un cliente, di solito stava dietro al bancone a leggere. Il labrador abbaiò, era ora di andare. La ragazza si avvicinò alla vetrina chiusa: sulla scansia più in vista c’era una bottiglia di Barbaresco del 1980 su cui poggiava “Il giudice e il suo boia” di Friedrich Dürrenmatt. Nei giorni successivi tutta la città seguì con apprensione le indagini: l’avvocato Pertich, il morto, era alle soglie della pensione, aveva una vita normale, nessun apparente nemico né ombre sul fronte lavorativo. Nessun testimone del terribile delitto, le telecamere che avrebbero dovuto monitorare il centro non avevano come al solito funzionato: del colpevole, quindi, nessuna traccia. Valentina era ossessionata dagli sviluppi del giornale. Aveva continuato a portare i cani davanti al bar anche in orario di apertura ma il libro di Dürrenmatt restava fermo al suo posto. Un fatto del genere non era mai accaduto. Il barista provvedeva sempre a rinnovare la vetrina. La settimana precedente un anziano signore pelato, che si era rivelato essere l’avvocato, aveva varcato quella soglia intorno alle otto di sera. Lo aveva fatto giovedì, venerdì e sabato, e quel sabato notte era stato ammazzato. Valentina era inquieta, non aveva raccontato a nessuno la storia che la tormentava ma era certa che la soluzione del mistero fosse legata a quei libri. I dettagli per lei erano importanti: davvero non sapeva impegnarsi nel cercare il significato di un ragionamento? Dietro agli occhiali verdi e sotto alla montagna di riccioli qualcosa le suggeriva che il titolo di quel romanzo rimasto esposto da troppi giorni fosse un messaggio. Se nessuno lo aveva ancora decifrato, toccava a lei farlo.

Quella sera, alle otto, la ragazza strinse a sé il guinzaglio dei cocker, prese un bel respiro ed entrò nel locale. Sopra alla sua testa la dicitura “mini wine and cocktail bar” era sormontata da una strana scritta con due caratteri diversi: la prima parte, ico, sembrava battuta con una vecchia macchina da scrivere, la seconda, lari, era rossa e vergata a mano in corsivo. “Buonasera signorina!”, una voce squillante e cordiale l’accolse. Si aspettava un tono diverso, più cupo, e rimase interdetta. Dal bancone una doppia fila di denti bianchi illuminò la penombra. Valentina era disarmata. “Benvenuta signorina, buonasera.” Si aggiustò gli occhiali, tanto per fare qualcosa, e poi per distogliere lo sguardo si girò verso i cani. “Posso dargli un po’ d’acqua? Ho la scodella apposita. Con quest’afa, signorina…” Di fronte a tutta quella gentilezza la ragazza non sapeva come reagire. Nel bar non c’era nessun altro: se ne accorgeva adesso o aveva deciso di entrare proprio per questo motivo? I cocker bevevano e si lasciavano accarezzare dallo sconosciuto. “E a lei che cosa posso servire?” I pensieri seguivano le spirali impazzite dei riccioli. Icolari doveva essere il cognome del proprietario. “Si prenda pure tutto il tempo che le serve.” C’era ancora cortesia nel tono ma affiorava un’ombra di impazienza. Valentina esitò, chiuse per un attimo gli occhi. Poi disse: “Voglio quello che ha preso l’avvocato Pertich sabato scorso.”

Pochi secondi di sospensione ma sufficienti per disegnare sul volto dell’uomo un misto di sorpresa e confusione. Aveva fatto centro. Il cuore della ragazza cominciò a battere a un ritmo vorticoso. Il barman impugnò uno strofinaccio e iniziò a lucidare con consumata abilità un calice che lei non gli aveva visto maneggiare prima. Riprese subito il controllo: “Purtroppo l’avvocato ha ordinato un Terrano.” Valentina era ipnotizzata dalle labbra carnose incorniciate dal pizzetto: adesso erano piegate appena in una sorta di sorriso rassegnato. E se fosse stata davvero in presenza di un assassino? I cassonetti a scomparsa la inquietavano da sempre e l’idea di finirci dentro non era esaltante. Non poté fare altro che distogliere ancora lo sguardo che le cadde sulle pareti di fondo del piccolo locale, dietro al frigorifero. Pile di libri erano accatastate laggiù. Edizioni economiche ma anche volumi con la copertina rigida, alcuni vissuti e rovinati, altri che sembravano nuovi. Adesso l’uomo stava quasi ridendo osservando l’espressione della ragazza attraversata da mille fulminei ragionamenti. “Quindi le servo un bicchiere di Terrano?” Lei sudava freddo: “No no… Un ginger ale, per favore.” Afferrata la bottiglietta di vetro, il barman la passò tra le mani da prestigiatore: la stappò come si tira il collo a un’oca con un colpo deciso e rapido, lo spesso bracciale di pelle doveva nascondere un apribottiglie. Valentina, pietrificata, doveva continuare: “Perché da qualche giorno il romanzo di Dürrenmatt è rimasto là?” Adesso lui la osservava con aria realmente interrogativa. “Di solito”, riprese la ragazza esitando, “i libri in vetrina cambiano quotidianamente.” L’uomo emise un suono impercettibile, forse di meraviglia: “Aspettavo lei per scegliere un nuovo titolo da esporre.” I cani si erano accucciati all’ingresso del locale. Nell’avvicinarsi a loro Valentina guardò fuori: dietro alla prefettura, invisibile, il sole stava tramontando in mare e su di lei vegliavano solo, beffardi, i volti colorati dei medaglioni a mosaico del palazzo. “I libri che mette sulla scansia hanno un significato, vero?” Il barman si spinò una birra, ne bevve un lungo sorso, espirò, annuì. Lei non voleva ragionare su “Il giudice e il suo boia” perché quel titolo le metteva i brividi. Aggrottò la fronte: “Giovedì, quando l’avvocato Pertich è venuto qui per la prima volta, in vetrina c’era… “La luna e i falò”, mi sembra.” “Eccellente!”, rispose lui, “Che spirito di osservazione. Anche l’avvocato era un appassionato di libri. E di vini. Quando è entrato mi ha detto che, nel romanzo, Pavese nomina il Nebbiolo e che a lui era venuta voglia, all’istante, di berne un bicchiere. Io gliel’ho servito. E mentre lui lo sorseggiava gli ho rivolto una domanda.” Valentina era affascinata da quel racconto: era molto più interessante degli studi all’università, più avvincente delle serie che seguiva in streaming. Tutta la situazione suscitava in lei emozioni contrastanti impagabili. “Ho chiesto all’avvocato”, riprese il barman, “quali altri vini menziona Pavese nel libro. Sono tre in tutto. Lui ha sorriso divertito: si ricordava perfettamente anche del Barbera. E il terzo? Ci ha pensato un po’, tra un bicchiere e l’altro. Ha detto che doveva trattarsi sicuramente di un vino bianco. Alla fine ha dato la sua risposta e ha indovinato: Moscato.” La ragazza era spaventata ma riusciva a pensare solo allo scaffale: venerdì era stato il turno di un romanzo che amava, “Il Gattopardo”. “Proprio così”, le disse lui, “e l’avvocato, visto il libro, è venuto dentro a dirmi il nome del vino citato, lo Chablis. Davvero bravo a ricordare l’errore di Tomasi di Lampedusa che abbina un vino bianco fresco all’arrosto.” Una risata sfuggì allora da dietro il bancone: “Grande scrittore ma bevitore mediocre: perfino Visconti nel film fa servire a Burt Lancaster un vino rosso. E la signorina si ricorda anche il titolo di sabato?” Valentina avrebbe potuto infilare la porta e scappare tirandosi dietro i cani che si sarebbero messi ad abbaiare ma l’avrebbero seguita veloci. Invece sistemò gli occhiali con l’indice e rispose: “Svevo… una raccolta.” Lui si illuminò: “Molto brava: sì, le novelle. Ce n’è una che s’intitola “Vino generoso”, è una delle più note. L’ha letta? Il protagonista riceve eccezionalmente dal medico il permesso di mangiare e bere ciò che vuole a un banchetto senza attenersi per una volta alla dieta. Così pasteggia e sorseggia fuori misura. Svevo non lo dice esplicitamente ma descrivendo gli eccessi a tavola del suo personaggio menziona un bianco istriano da pasto comune, un vino secco e sincero. Parole precise che vanno in una direzione. È ovvio che si riferisce al Malvasia.” La ragazza trangugiò ciò che restava della bibita e aveva già sete di nuovo. Adesso l’uomo si era fatto serio: “L’avvocato mi ha proprio deluso. E dire che aveva cominciato così bene. Il titolo del racconto l’ha indovinato, sì, ma poi ha ordinato un Terrano. Ma come si fa? C’è scritto chiaramente che si tratta di un vino bianco. Non può immaginare con quanta tristezza ho stappato quella bottiglia. Ma si rende conto? Che scivolone pacchiano, imperdonabile. Si fosse trattato del Terrano, Svevo lo avrebbe definito ruvido il vino, non secco.”

Valentina appoggiò il bicchiere sul bancone. Ora che ci era entrata in quel piccolo bar non sapeva come uscirne. Continuò a domandare, anche se le tremavano le gambe: “Avevate fatto una scommessa lei e l’avvocato?” L’uomo non rispose. Per un istante si udì un rumore sinistro da fuori, poteva sembrare il suono della chiusura dei bottini a scomparsa due piazze più in là ma era impossibile. Lui lasciò il suo posto dietro al bancone e passò a fianco alla ragazza. Superò agilmente i cani che stavano riposando o forse addirittura dormivano. Dalla vetrina sfilò il libro di Dürrenmatt e lo portò in fondo al locale tra le pile di volumi. Poi ritornò alla sua postazione e fissò Valentina col suo sguardo penetrante. “La signorina è un’appassionata di letteratura. Bene. Lo è anche di cani? Il labrador la mattina, i cocker la sera…” Lei non riusciva a muoversi né a parlare. Era il loro primo incontro ma il dialogo sembrava durare da un’eternità. Quell’uomo quanto sapeva sul suo conto? Chi dei due aveva spiato l’altro oltre la vetrina del bar? Era lei quella che notava i dettagli, lei quella che voleva per una volta seguire gli sviluppi della vicenda e giungere a una conclusione. “Allora lo scopriremo se conosce i cani quanto i libri. Le va di giocare?”, disse sorridendo affabile il barman. “Cominciamo domani, è giovedì. La aspetto per l’aperitivo, signorina.”

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