di Matteo De Giuli
La scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti”, scrive Trevi. “Consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne”. Il motivo è semplice. Quando scriviamo di un morto, il suo spettro si manifesta con una presenza ingombrante, quasi tangibile, e non in un debole miraggio, come può succedere invece in un sogno, o nel pensiero. In Due vite Trevi evoca così gli amici scrittori Rocco Carbone, scomparso in un lampo, sbattendo con il motorino contro una macchina parcheggiata in doppia fila, e Pia Pera, morta invece lentamente di SLA. Trevi ricorda le serate e i viaggi passati tutti e tre insieme. Ripercorre le carriere dei due amici, le loro qualità umane e letterarie, le rispettive storie d’amore, i litigi e i lenti riavvicinamenti. Rocco Carbone ne emerge come una persona eternamente insoddisfatta, con un carattere “per niente facile”, ostinato; uno che, da autore, cerca un ordine razionale che nella vita gli sfugge: usa la scrittura come una cesoia per tagliare e levigare la realtà nell’allegoria. Il suo ultimo libro, L’apparizione, (“quello che per comune consenso si può definire il suo capolavoro”) sarà un romanzo simbolico sul disturbo mentale, la psicosi, la mania bipolare di cui soffriva.
Pia Pera viene raccontata invece, con malinconica ammirazione, come una persona curiosa, un “essere incantevole” e una “grande scrittrice”, maliziosa e lieve, dall’“intelligenza scintillante”, che traduce, tra gli altri, Lermontov e Puskin con “leggerezza, lirismo, duttilità”. Masochista nelle questioni amorose, e per questo anche lei, a suo modo, infelice, troverà consolazione, negli ultimi anni, nel trasferimento in un casale di famiglia, in campagna. Lì inizierà a scrivere libri sulla vita all’aria aperta e la cura dell’orto e del giardino. Un anno fa, in un’intervista di Laura Marzi sul Tascabile, Trevi disse che la letteratura, a differenza della filosofia o della scienza, è una ricerca della verità pigra, che non tende all’universale ma si concentra sul particolare, sulla singolarità. Lo ripete anche nel libro, esplicitamente: “la letteratura deriva la sua stessa ragion d’essere dal rifiuto di ogni generalizzazione: è sempre la storia di quella persona, murata nella sua unicità, artefice e prigioniera della sua singolarità”. La letteratura è ancorata al racconto di un caso, non può essere un criterio di conoscenza generale e definitivo. Eppure, in Due vite torna spesso un movimento tipico della scrittura di Trevi: è quel particolare passo che gli permette di spostarsi – in maniera repentina, a volte, ma mai violenta – dall’io al noi. Anche quando è nel bel mezzo delle vicende, Trevi è capace cioè di smarcarsi da quello che sta raccontando per aprirsi a qualche considerazione universale: sullo spirito umano, sulle passioni, sulle contraddizioni dei rapporti, sulla morsa dei desideri. È una ricerca forse pigra, quindi, poetica o letteraria della realtà, ma non si può negare che tenti anche di essere generale. […]