Cultura Letteratura Poesia

Se questa è un’arma: come la poesia può salvare un popolo

Come perdersi nelle parole che aiutarono il popolo balcanico a combattere e sopravvivere a una delle guerre più sanguinose della storia.

di Sophie Grace Lyon

I memoriali Rose di Sarajevo, realizzati nelle buche d’asfalto causate dai proiettili di mortaio

“Con la voce che non ho, nella lingua che non ho /dalla casa che non ho, io canto la mia canzone, o madre”.[1] Su come perdersi nelle parole che aiutarono il popolo balcanico a combattere e sopravvivere a una delle guerre più sanguinose della storia.

Una persona appassionata di poesia è un essere vivente incompleto: giace sul fabbisogno costante di emozioni, alla ricerca del sollievo immediato delle parole. È la fedeltà quindi, il suo più grande obiettivo, e nessuna poesia è stata più fedele di quella scritta durante la guerra dei Balcani, dove l’odio e l’amore si sono manifestati in una forma così pura e violenta, da creare la poesia più onesta di sempre.

“Sapere quanto puoi sopportare senza andare

in pezzi – questo è l’unico potere

che avrai, se sopravvivrai,

dopo questa guerra infinita”[2], scriveva Marko Vesovic.

La verità è che nei Balcani, tra il 1991 e il 1996, è andato tutto in pezzi: la guerra civile ha portato a 100.000 morti e la capitale della Bosnia, Sarajevo, è rimasta assediata per quattro anni. Nonostante questo, due cose non mancavano mai: le sigarette (i pacchetti erano bianchi perché mancavano le stampatrici) e le poesie. La poesia prosperava rigogliosa come il sangue nelle trincee e nessuno osava mancarle di rispetto. Vesovic rifiutò il premio letterario “Risto Ratković”, uno dei più importanti premi letterari montenegrini, in quanto assegnato nel 1993 al criminale di guerra, nonché genocida, Radovan Karadžić. Quest’ultimo entrò, in occasione del premio, nella città di Bijelo Polje (città del Montenegro) su un carro armato, occupandola. In questa guerra, ogni poeta era soldato e ogni soldato era un poeta, a prescindere dalle fazioni che decideva di celebrare. Nello stesso anno a Sarajevo, sotto gli occhi dei cecchini, si scriveva questo:

L’amore mi ha reso poeta

 L’amore che mi ha dato la forza di non dormire

una notte dopo l’altra, bensì di scrivere nel

diario dell’insonnia migliaia di poesie tristi sulla

vita e, spero, almeno una poesia allegra

sulla morte[3]”.

Josip Osti è nato nel 1945 ed è solo uno dei tantissimi poeti a scrivere di Sarajevo durante la guerra. Negli anni Novanta scrive una poesia su sua madre. Immagino che sappiate come siano le poesie sui genitori. L’esempio più classico è tutto italiano, quello di Edmondo De Amicis: “Mia madre ha sessant’anni/ E più la guardo e più mi sembra bella”. Josip Osti non ci descrive sua madre (d’altronde, come può essere una donna, durante un assedio?), ma di lei ci viene raccontato un gesto così intimo, che persino la bellezza può celare. La poesia si intitola, molto semplicemente “Mia madre che lucidava di continuo le posate” e racconta di come lei ricerchi questo suo gesto in una città dove non c’è più acqua da bere, tantomeno per pulire le stoviglie.

“Scopa le schegge delle finestre

in frantumi e la polvere dalle pareti sgretolate dagli shrapnel

si mette in grembo il nostro gatto siamese, vecchissimo

ormai, e lustra le posate”.[4]

È importante sapere che furono centinaia i colpi di mortaio sparati sulla città in quegli anni: fungono tuttora da decorazione per gli edifici e sono stati dipinti a terra con del colore rosso, creando le famose “Rose di Sarajevo”, come presidio alla memoria.

In una città completamente distrutta, nel 1993, il poeta cerca disperatamente conforto nelle sue stesse parole, diventandone anche il lettore: un gesto semplice, che riconduce alla vita di tutti i giorni, alla vita di prima. Quello che più colpisce è la spontaneità che si cela dietro le parole: come l’odore del pane appena sfornato da nostra madre, il sapore di un pasticcio di patate, la musica dell’ukulele del nostro amico attorno al fuoco. La semplicità nei Balcani era sinonimo di sopravvivenza, mentre la poesia, un mezzo per raccontarla. Come direbbe Jasmina Ahmetagic, poetessa serba che durante la guerra aveva poco più di vent’anni:

“Se metti qualcosa di epico nel dramma

e non sei Brecht o Strindberg

non vali niente. Di loro due altri valuteranno le qualità

E te dichiareranno un dilettante. Senza conoscere il mestiere

è consentito tutto nell’arte?

Eppure

non si era detto che l’arte è una trasgressione dei generi?”.[5]

Se è vero che l’arte è la trasgressione dei generi, non c’è nulla di più irriverente di gettarsi nelle braccia dell’amore durante un bombardamento. Senadin Musabegovic è alto un metro e novantuno, svetta tra le reclute come tra i poeti, con il suo sguardo severo e le parole taglienti. Da piccolo suo padre lo misurava al muro, accanto alla foto di Tito inchiodata all’ingresso della sua casa. In una delle sue prose, racconta come, guardando un uomo accasciato sul marciapiede ucciso da un cecchino, abbia sentito “sulla testa la riga con la quale la mano di mio padre misurava il confine tra me e il mondo”. Lui ci insegna cos’è il tempo, negli anni bui dei Balcani: il tempo non è scandito dalle lancette, quelle sono da lungo tempo distrutte. Il tempo è scandito da un rumore ben preciso, un rumore ripetuto, distinto: quello delle esplosioni. Più sono vicine, più ci affanniamo a voler inalare l’odore dell’amato per l’ultima volta, come a voler bloccare il tempo, come i conservanti nel cibo in scatola fanno con i corpi:

“Ti dico:

 – Dobbiamo fare l’amore

Perché il tempo scade.

Adesso da qualche parte

i combattenti scaduti

Stecchiti giacciono nelle proprie trincee

Pieni di conservanti”.[6]

In questi quattro anni di assedio, in questa guerra combattuta dai nostri vicini di casa e nelle loro poesie, sembra esserci un unico filo conduttore: che a Sarajevo nulla è ciò che sembra. Una posata non è davvero una posata, un poeta non è solo un poeta, un rumore non è semplicemente un rumore e in una guerra etnica un bosniaco non è puramente un bosniaco. Ci sarebbero ancora tantissimi poeti da citare ma per terminare, mi voglio avvalere delle parole di quello che è considerato uno dei più grandi poeti del Novecento: Izet Sarajlić, un bosgnacco[7], sposato con una cattolica, con un genero ortodosso ed il poeta più tradotto di tutti i tempi dalla lingua serbo-croata:

“Qui, se chiamo, persino i pioppi, che sono miei concittadini,

sapranno ciò che mi fa soffrire.

Perché questa è la città dove, a dire il vero, non ho avuto molta fortuna

ma dove tuttavia anche la pioggia, quando cade,

non è solo pioggia”.[8]


Consigli di lettura:

Senadin Musabegovic – La Polvere sui guanti del Chirurgo

Miljenco Jergovic – Le Marlboro di Sarajevo

Izet Sarajlić: tutto quello che riuscite a trovare

Per sapere la verità: Paolo Rumiz – Maschere per un massacro

Per vedere la verità: Luigi Ottani, Roberta Biagiarelli – Shooting in Sarajevo


[1] Abdulah Sidran, “L’Incubo”

[2] Marko Vesovic, “Il Manico”

[3] Josip Osti, “L’amore mi ha fatto poeta”

[4] Josip Osti, “Mia madre che lucidava di continuo le posate

[5] Jasmina Ahmetagić, “07”

[6] Senadin Musabegovic, “La Polvere sui guanti del Chirurgo”

[7] Bosniaco (quindi nato in Bosnia) ma anche musulmano.

[8] Izet Sarajlić, “Sarajevo”


Sophie Grace Lyon, appassionata di poesia, letteratura e politica.

Si è laureata in Scienze politiche con una tesi sullo stupro e lo sfruttamento della popolazione bosniaca da parte dei caschi blu durante la guerra nei Balcani 1991-1996.


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