di Vincent Baker

Un artista starebbe manifestando un fenomeno di razzismo nel momento in cui, esprimendosi attraverso la sua opera, la facesse risultare razzista per alcuni lettori? Dovremmo indignarci e accusare uno scrittore di essere abominevole, disumano, spregevole per avere parlato simbolicamente male di un ebreo – come quelli protagonisti dei romanzi di Eugène Sue, o come quelli di Umberto Eco ne “Il cimitero di Praga”, descritti come esseri viscidi, traditori e colpevoli, paragonabili a un topo? O magari dovremmo pensar male di un pittore, o di uno scultore, che non avesse incluso nelle sue opere persone di chiara origine africana, e non solo selezionatissimi adoni dell’estetica greca? O potremmo credere che sarebbe nobile, pregevole, smettere di ascoltare l’amatissimo musicista romantico che non volle accettare di inserire nell’ultima sinfonia, o in quella famosa sonata, per universale par condicio, una partitura pentatonica d’ispirazione cinese. Vexata quaestio.
Mi servo di questi paradossali presupposti perché, oggi, pare che – a causa di modelli sociali importati e assunti in pianta stabile da altre culture, soprattutto, storicamente meno elaborate e consolidate di quelle europee – si stia perdendo la bussola su quello che in effetti è etico e morale, nel saper valutare e comprendere ciò che rientra, o non dovrebbe rientrare, nel vasto calderone dell’americanissimo politically correct. Mi riferisco non solo a tutti quegli episodi di bieco razzismo che avvengono ogni giorno nelle città di una nazione presunta civile come quella italiana, ma anche ai tanti episodi di intolleranza – pure da parte di una politica, davvero poco politically, e non mi scuserò per la voluta allitterazione – verso chi non è eterosessuale, verso chi è più debole fisicamente, diversamente magro, verso chi non ha un pensiero massificato, verso chi non rientra in quei sempre più comuni principi di falso moralismo populista. Mi aiuto a spiegare che cosa intendo per eticamente corretto e ottusamente politically correct e moralistico – perché capita anche a me, qualche volta, di pensare che in quel ristorante etnico, invece che in quell’altro, ci sia troppa puzza di fritto (qualche volta a buona ragione) con l’approccio che l’Arte ha da sempre nei confronti di tutte quelle forme degenerate della società che portano ad avere una relazione spregevole e conflittuale con l’altro, l’estraneo.
Un esempio su tutti: come spiegava Leonardo Sciascia, nel commentare la prima bellissima traduzione de Il buio oltre la siepe di Harper Lee, nella prima edizione anni ‘60 in lingua italiana, il termine da usare correttamente, contrapposto invece all’accezione che se ne dà nello slang americano, per rivolgersi a un uomo di colore, sarebbe stato ai tempi negro (acquisizione perfetta dal latino che conservava il proprio naturale etimo) e non nero, aggettivo qualificativo, generalizzato e generico, di significato tendenzialmente dispregiativo (esempio: cronaca nera, sfortuna nera, l’uomo nero, ecc.), a differenza dell’inglese, ma sarebbe più consono dire dell’americano, nigger rispetto a black. Impossibile non notare l’inversione dei termini che ancora oggi hanno derivazioni e implicazioni storico–culturali uniche e proprie delle comunità bianche americane, di estrazione razzista. Dice nulla la Guerra di Secessione? Mi viene perciò da pensare che di tutto il pattume falsamente mitico che abbiamo importato in Italia dagli Stati Uniti, negli ultimi trent’anni, oltre che talk show in cui due famiglie finiscono per darsele di santa ragione, illustri sconosciuti spiati giorno e notte e mentre fanno la cacca, o i fast food, uno dei più beceri è l’ignorante (inteso come incapace di discernimento ragionevole) principio del Politically Correct: falso e bieco moralismo da quattro soldi, conferito di aura legalitaria, e nient’altro che utile all’establishment (e alle classi di potere) a convincere un popolo quanto gli stia a cuore quella sorta di rispetto universale e di parità fra le classi sociali, razziali e sessuali: tanto per amicarselo alle prossime elezioni. Concluderei che – e perdonatemi l’ovvia ovvietà – non conosco nulla di più razzista, classista e populista di tutto ciò. Un ottimo articolo di Umberto Eco, in una delle sue Bustine di Minerva anni 90, splendidamente ironico, spiega in modo illuminante quanto falso moralismo vi sia connaturato nel Politically Correct d’oltreoceano. Capiamoci; il mondo evolve e cambia, oltre che globalizzarsi, e così il linguaggio va assieme a lui di pari passo. L’utilizzo che facciamo del rispetto per l’altro è, invece, sempre connaturato alla formazione e all’educazione sociale e culturale di ogni individuo, tessera atomica della società. Ogni individuo dev’essere pertanto capace di distinguere obiettivamente, e di comportarsi adeguatamente alla situazione soggettiva in cui si trova e vive. Giustamente, ognuno non può che vivere la vita e i contesti che gli sono capitati, e deve adattarsi a modi e costumi di quella realtà, attraverso epoche e tendenze della comune convivenza: se una parola muta e assume un significato violento, dispregiativo non può più essere utilizzata come prima, come se nulla fosse.
Dopo aver espresso le stesse argomentazioni in una chat (dal tono, incredibile ma vero, cordiale), in cui accennavo al trattato linguistico di Sciascia, l’utente Massimo Sola mi ha fatto opportunamente notare che, oggi, non utilizzerei a mia volta la parola negro in contesti formali; né in presenza di persone a cui non avrei spiegato precedentemente con tatto accademico gli aspetti filologici della questione, per non rischiare di essere accusato, nell’eventualità, di appellarmi a un’esasperata faziosità etimologica della nostra delicata, e pur varia, lingua. Sembrando tale puntualizzazione, sì precisa, ma riduttiva, essa ha comunque il pregio di una riflessione fondamentale: va sempre considerato in quale contesto socio–culturale siamo inseriti, quando ci prendiamo la responsabilità di utilizzare termini o linguaggi, ma anche modi o forme, per ciò che intendono tout court, in assoluta correttezza, ma che rischiano pur sempre di non essere compresi (intesi nel loro valore espressivo intrinseco) dai nostri interlocutori. Cosa che vale da sempre, e per sempre, nell’Arte; e non a caso mi riferisco a linguaggi e forme, termini propri delle discipline artistiche ed espressive.
“Uno finisce sempre per assomigliare alla gente con cui vive. Alla persona con cui sta, agli amici, perfino ai colleghi di lavoro, addirittura al gatto”.
Alejandro Zambra, poeta cileno
Il linguaggio evolve poiché le necessita etiche e morali evolvono in funzione del progresso sociale del mondo. Facciamo solo in modo che, sempre appunto per non essere falsamente rispettosi e ipocriti, non si utilizzino mai in un’opera d’arte termini, linguaggi e forme falsamente moralistici e moralizzatori. Sarebbe, perlomeno, piuttosto che politically correct, moralmente giusto.